Premio Letterario Zeno - V Edizione

Fra tutti i romanzi (e sono tanti, usciti in questi anni) che testimoniano di un'esperienza di vita criminale, quelli che si guadagnano uno spazio nella memoria del lettore si distinguono – e non potrebbe essere altrimenti – per l'onestà e la potenza della voce narrante. In Loro mi cercano ancora Maria Stefanelli, con ammirevole generosità, ci racconta tutto della sua esperienza, del suo calvario, del coraggio della propria scelta di ribellione e di liberazione. Non c'è nulla di autocelebrativo, alcuna zona d'ombra, alcun punto in cui tanto la scrittura quanto il racconto dell'esperienza cedano al fascino della violenza, all'epica del crimine e di chi ci si contrappone. Una testimonianza, ma soprattutto un libro, necessario. (DIEGO DE SILVA)

Ecco un incipit originale e ben scritto: nessuna fatica, neanche minima, a leggere le prime pagine, quelle che dettano la voglia di andare avanti. Un accaduto semplice e chiaro, eppure disseminato di buoni spunti di originalità, anche brevissimi, mai superflui, mai eccessivi. Si percepiscono con gli occhi l'ambiente, l'atmosfera, la tempra dei personaggi. Gente che vive in falsetto, con addosso la maschera di scena. Napoletani, insomma. Un doppio delitto, un commissario, la sua mamma impicciona, la sua donna occasionale. Stuoli di vicini di casa e parenti delle vittime che starnazzano. Nel mezzo del cammino la narrazione perde un poco il mordente e alcuni stratagemmi narrativi mi appaiono discutibili, come la grafica dei capitoli che non è sempre la stessa e i flashback resi al corsivo invece che con tempi verbali appropriati. In alcuni punti si sente la mancanza di un dialogo serrato, in altri ci si dilunga un po' troppo. Peccati veniali perché la trama è intrigante e credibile. Un giallo che si legge volentieri. (ROBERTO SCARDOVI)

In Io ci credo la forma semplice della sintassi, la scrittura facile alla lettura fanno da contrappeso a un racconto a suo modo epico di una coppia di briganti innamorati dal destino sfortunato. Le parti dei dialoghi e la confessione finale in dialetto sono ben scritte e rendono appieno – anche per chi non è in grado di decifrare la lingua – i sentimenti di rabbia, di angoscia e di resa. Finzione e riferimenti storici si fondono e l'uno regge gli altri in modo che non solo risulti tutto plausibile ma addirittura una lettura più credibile degli avvenimenti di un qualsiasi documento storiografico. I personaggi, anche quelli secondari, sono ben tratteggiati, sempre necessari e funzionali alla vicenda. (DIEGO DE SILVA)

Le galline del signor Razzoli ha la forza della scrittura acerba e delle prime esperienze, canzona se stessa e il rapporto che abbiamo con il tempo e tutto ciò che amiamo, sopratutto con le nostre ossessioni giovanili. Non ci sono sedie, il protagonista ha una casa e non ha sedie e nel talento ancora grezzo di Maddalena Fingerle c'è questa meravigliosa scoperta: a vent'anni, delle sedie (e della scrittura come mestiere che sacrifica la freschezza), si può fare tranquillamente a meno. (DIEGO DE SILVA)

Stralunato racconto di formazione. Il protagonista vive tra domande assurde, assurde paranoie e strampalati tic (che presi singolarmente potrebbero appartenere a ciascuno di noi), nonostante questo vive una vita che potrebbe essere quella di qualunque studente fuorisede. Belle trovate ricamate con una lingua fresca e divertente. (ANDREA FABIANI)

La struttura regge bene una storia tirata all’estremo, che anticipa nella premessa orrori e temi del racconto, diventa via via più conseguente grazie alla rete dei rimandi interni, al delinearsi dei personaggi, alla definizione dell’ambiente. Nella chiusa, quando sembra sciogliersi ogni ambiguità sui ruoli dei personaggi e sui rapporti che intercorrono tra loro (vittima-carceriere, madre-figlio, madre-non madre, figlio-non figlio), resta aperta una domanda: crudo realismo o metafora crudele? La lingua supporta adeguatamente il contenuto. Intrigante. (VALERIA ONGARO)

Un claustrofobico conto alla rovescia verso la libertà. Il racconto descrive con freddezza un orrore difficile da maneggiare e lo fa senza morbosità, risultando assolutamente credibile nell'allucinato dualismo tra amore e follia. Ritmo coinvolgente, eccezion fatta per qualche similitudine di troppo. (ANDREA FABIANI)

Racconto costruito con abilità dall’incipit ambiguo al delirio del protagonista. Tutto è visto e vissuto in una dimensione interiore fino alla chiusa beffarda, quando il protagonista non potrà esimersi dal far fronte alla realtà. Adeguato l’impasto linguistico. Si fa leggere volentieri. (VALERIA ONGARO)

La storia di una vita per istantanee. Il racconto si presenta come un collage di momenti, che ricompongono con precisione e drammaticità un'esistenza. Appropriata e precisa la lingua utilizzata. Molto buono il ritmo narrativo. Una storia che coinvolge a fondo con la sua normalità. (ANDREA FABIANI)

Questa poesia in dialetto garganico non avrebbe nessun bisogno della traduzione a fronte, che pure è ben fatta e conserva l'incanto del verso. Ianzano ha una sapienza della metrica e della potenza sillabica delle parole così magistrale che il significato – non è un caso si tratti di un uovo a due tuorli – diventa del tutto trascurabile. C'è una forza arcaica che proviene direttamente dalla provincia meridionale ma priva di ogni forma di nostalgia conservatorista: è la ligua com'è, per la capacità evocatrice che possiede. (DIEGO DE SILVA)

Che dire di quest'uovo a due tuorli? È una bella metafora di una divergenza che non può essere solo del pensiero; è un lento rimuginare in cerca dell'antica magia, la vera essenza delle cose. Musicale e di una semplicità solo apparente. (ELVIRA MANCO)

La cadenza lenta e meditativa del dialetto garganico, organizzato in nitide terzine di endecasillabi, contribuisce al fascino di questa lirica di andamento gnomico, sapienziale, nella quale il pensiero dell'autore, disgiunto (scucchiate) in due metà, viene paragonato a un "uovo gemellare", con due tuorli. Particolarmente suggestivo l'accostamento tra un'entità astratta come il pensiero e un oggetto umile e concreto come il tuorlo d'uovo. (SERGIO PASQUANDREA)

Il poeta riesce a trarre dai suoni apofonici e dai ritmi sincopati del dialetto garganico una struttura fonetica compatta e ipnotica allo stesso tempo. A causa dell’universalità del simbolismo dell’uovo, la poesia invita il lettore a vedere un ‘di più’ che non è dichiarato, che forse neppure c’è, ma che comunque ciascuno immaginerà a modo suo. (GIUSEPPE FEOLA)

Bello l’effetto prodotto dal contrasto tra un tema astratto e un ritmo e una dizione molto concentrati. (GIUSEPPE FEOLA)

Una realtà interiore lacerata, tellurica, nella quale il soggetto "inciampa"; un "infinito spazio chiuso" nel quale si vorrebbe accogliere la sofferenza dell'altro: è il paesaggio nel quale si muove questa poesia, dall'andamento franto e nervoso, che si conclude con una sentenza ossimorica: "Ma serve tantissima distanza / per guadagnarsi un briciolo / d'intimità". (SERGIO PASQUANDREA)

Ho apprezzato il ritmo, la densità del testo, la scelta di ogni singola parola, quell'essere monumento di cediglie che rende bene il senso della pochezza umana.
(ELVIRA MANCO)

L’incubo della ‘confusione delle lingue’ e della fine della civiltà viene trattato con arguzia e intimismo. Notevole il finale ‘in crescendo’. (GIUSEPPE FEOLA)

"Così finisce il mondo. / Non con un'esplosione, ma con un piagnucolio", affermava T.S. Eliot in The Hollow Men. Allo stesso modo, in questa poesia, la grandiosa "tuba mirum spargens sonum" del Dies irae si trasforma in un inquietante suono di "zampette di ragno", accolte con la "quotidiana noncuranza". La fine del mondo, sembra dirci l'autore, forse c'è già stata, solo che noi non ce ne siamo accorti. (SERGIO PASQUANDREA)

La stanchezza, il senso della fine imminente sono trasmessi da questa poesia con cadenze intense e allo stesso tempo misurate. Lo stile è nobilmente alto, ma evita gli eccessi di letterarietà per adottare piuttosto un andamento sommesso e discorsivo. (SERGIO PASQUANDREA)

Non è facile trovare bellezza in versi così pieni di dolore, così accorati nel tentativo del distacco, quasi a protezione dell'amore impotente dei cari, struggente la ricerca del senso, dell'incastro dell'ultimo tassello. (ELVIRA MANCO)

Una scena quotidiana viene trasfigurata, fino a sovrapporsene, nella celebre raffigurazione leonardesca del Cenacolo. Le persone raccolte attorno a un amico sofferente (una malattia terminale? Il testo lascia, suggestivamente, il lettore nel dubbio) diventano gli apostoli che circondano Cristo durante l'ultima cena. Ma è acuta la percezione di quanto diversa sia realtà, rispetto alla bellezza ideale dell'arte. Un testo che nasconde il mistero sotto un'ingannevole limpidezza. (SERGIO PASQUANDREA)

Versi incisivi e netti, quasi una foto tridimensionale dove la terza dimensione, la profondità, è data dal tocco emotivo dei personaggi di quell'opera unica che è il Cenacolo, commovente il berrettuccio di lana di Gesù. (ELVIRA MANCO)