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Premio Letterario Zeno - IX Edizione
La IX edizione del Premio Letterario Zeno ha avuto come giurata d'onore la scrittrice Carola Susani (Feltrinelli, Minimum Fax, Giunti, Gaffi). La premiazione si è svolta alla Libreria Tomo di Roma, domenica 19 dicembre 2021, ed è stata presentata dalla stessa giurata d'onore e dalla giornalista Ertilia Giordano.
La giuria, coordinata da Emanuele Bukne (Edizioni Esi, Jota Project) e da Antonio Russo De Vivo (Crapula Club, Jota Project), è stata composta da Giuseppe Feola (ricercatore Scuola Normale Superiore di Pisa), Silvana Perotti, Paolo Casadio, Luigi Esposito Giardino, Renato Nicassio, Marco Scarlatti, Michele Frisia (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Romanzi), Valeria Ongaro, Maddalena Fingerle, Carlo Nello Ceccarelli, Maurizio Minetto, Angela Flori, Leandro Lucchetti, Valeria Micale (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Racconti), Marco Maffei, Elvira Manco, Sergio Pasquandrea, Luigi Ianzano, Fernando Della Posta, Valentina Cottini (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Poesia), Marcello Greco, Luigi Di Carluccio. Hanno collaborato inoltre all'edizione 2021: Maria Scerrato, Davide Toffoli, Chiara Dalpasso, Cinzia Petri, Daiana Ongari, Daniela Pianetti, Filippo Pivelli, Marco Fiodo, Mirella Borgocroce, Rosella Bottallo, Stefania Raschillà, Stefano Giuseppe Scarcella, Giovanna Riccardo, Vincenzo Rezzuti, Federica Capoduri, Lucia Zago, Cecile Tombolini, Nilla Patrizia Licciardo, Giulio Rossi, Liliana Capone.
Il Giurato d'Onore
Carola Susani
È una scrittrice nata a Marostica (Vicenza) nel 1965. Nel 1995 è uscito il suo primo romanzo, Il libro di Teresa (Giunti), nel 1998 La terra dei dinosauri (Feltrinelli). Con Feltrinelli ha inoltre pubblicato i romanzi per ragazzi Il licantropo (2002) e Cola Pesce (2004). Nel 2006 minimum fax ha pubblicato la sua raccolta di racconti Pecore vive, finalista al Premio Strega 2007. Un suo racconto è incluso nell’antologia al femminile di minimum fax Tu sei lei. Eravamo bambini abbastanza (minimum fax 2012) ha ricevuto molti riconoscimenti, tra cui il Premio Lo Straniero 2012. Nel 2014 la casa editrice Laterza pubblica Susan la piratessa, un romanzo illustrato per ragazzi. Per ragazzi sono anche le riscritture dell'Eneide e dell'Odissea e Miti romani (Nuova frontiera junior), oltre al romanzo Un segreto a scuola (Mondadori 2019). Del 2018 è La prima vita di Italo Orlando, primo di una trilogia targata minimum fax della quale è uscito quest'anno il secondo volume Terrapiena. Da anni promuove la lettura con l'associazione di scrittori "Piccoli maestri", conduce laboratori di scrittura per adulti e ragazzi per La scuola del libro, Minimum fax, Le città invisibili, e con Parole a km 0, associazioni di cui è socia fondatrice. È redattrice della rivista "Nuovi argomenti"; fondata da Alberto Moravia, ha collaborato con "Gli Asini", "Lo Straniero", "Repubblica", "Accattone". Attualmente collabora con "L'osservatore romano", con "Il riformista" e fa parte della redazione del mensile "Donne Chiesa Mondo".
Vincitori e Finalisti
Sezione A: Romanzi Editi
Natalia Guerrieri
Non muoiono le api
Un romanzo a pannelli, ambientato nel futuro, ma un futuro così prossimo che a volte sembra che sia già in atto. Si racconta del tracollo di una società ipertecnologica in cui il rapporto con la vita e il mondo naturale è limitato dal timore, in cui le api sempre più raramente compaiono. Voci di personaggi, donne e uomini, di età diverse raccontano dall’interno, per porzioni di esperienza, la crisi, una crisi che precipita per slittamenti successivi fino a sedimentarsi in un sistema concentrazionario. La scrittura limpida ci accompagna fra le coscienze che resistono, sostenute da forze del passato che riaffiorano con potenza magica. (CAROLA SUSANI)
In questo notevole romanzo d’esordio, la società unica è un luogo meraviglioso, dove il cloud informatico Nuvola si prende cura di tutto e di tutti: persino dell’avviare e guidare l’autovettura. Questi privilegi sono riservati ai cosiddetti comunitari, mentre agli acomunitari – tagliati fuori dalle risorse e abitanti in sorta di bantustan – le cose vanno diversamente. Anna ha tutto: un buon lavoro, una bella famiglia, una grande casa, un giardino dove sua figlia Andrea, curiosa bambina di cinque anni, gioca e osserva le poche api ancora esistenti. Come non pensare all’irreale giardino eterno in cui vive Freder Fredersen? Come non pensare alla macchina M? Oppure al mondo orwelliano del Grande Fratello e della piramide gerarchica? La realtà distopica, però, è immediatamente percepibile e lascia presagire ben altre realtà. Il totalitarismo digitale presto s’incrina sotto attacchi hacker e il luogo meraviglioso si scopre in guerra contro entità misteriose. Anna è arruolata a forza. Si salva solo la figlia, nascosta dalla nonna. Le tre voci narranti – Andrea, Anna e Leonard, un giovane aspirante giornalista – si intrecciano in brevi capitoli, ciascuno con una propria voce, tutti posti di fronte alla perdita e alla distruzione del proprio mondo. Su tutte, forte è quella di Andrea, bambina ancora senza alcuna esperienza della realtà, pellicola vergine in grado di impressionarsi meglio. Lo stile è secco, scarno, diretto, scorrevole, adeguato alla mole non indifferente del romanzo. Le immagini cinematografiche di Blade Runner, oppure del gigantesco Alpha60 dell’agente Lemmy Caution, oppure ancora di Fahrenheit 451 di Bradbury, diventano inevitabili rimandi stuzzicati da una narrazione solida e fin troppo attuale nei temi affrontati: l’immigrazione, la crisi climatica, le disuguaglianze sociali, la scomparsa – assieme alle api – della memoria storica. (PAOLO CASADIO)
Non muoiono le api è un romanzo ambizioso che sembra mirare a fornirci una chiave di lettura del tempo in cui viviamo. La storia parte da una tranquillità illusoria e artificiale fatta di case che sono “microcosmi perfetti e autosufficienti”. Da qui comincia a insinuarsi una realtà inquietante che ben presto fa precipitare il mondo in una nuova Shoah. Dal collasso ipertecnologico prende vita però un misticismo inatteso che riaccende la speranza. La presenza di maschere, smart working e distanza sociale fa riconoscere subito l’ombra del Covid. Oggi, in tempi di animosità politiche, dibattiti scientifici e teorie complottistiche, l’associazione pandemia-dittatura-olocausto suggerita nell’opera può risultare controversa. Ma ho il sospetto che in futuro, riletto e riscoperto in un altro clima, questo romanzo potrà forse restituirci un quadro ben disegnato delle ansie e delle speranze che oggi si coltivano. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Una storia raccontata da tre voci narranti, che mostrano un mondo futuro al collasso. Il punto di forza è l'ambientazione suggestiva e credibile, che gioca nel creare una distopia portando all'estremo le storture tecnologiche e ecologiche del mondo in cui viviamo. Buona la trama, che avrebbe forse reso meglio se fosse stata inserita in una narrazione più breve. (MARCO SCARLATTI)
Idea e scrittura ammalianti, già dall'esergo-dedica Agli occhi grigi dei nostri fantasmi, perché il loro ricordo risplenda. Testo lucido e visionario che racconta un futuro distopico e che, grazie ad uno stile narrativo frammentato e decisamente efficace, riesce ad incollare letteralmente il lettore alla pagina con dialoghi serrati, cambiamenti del punto di vista ed evoluzioni inaspettate della storia. (DAVIDE TOFFOLI)
Nel mondo di un futuro molto prossimo e molto simile al nostro presente, tutto è regolato da Nuvola, la rete globale, non più anarchica e dispersiva come l’attuale Internet, ma rigidamente controllata da un potere apparentemente non troppo autoritario, un governo più simile alla dirigenza di una sconfinata azienda che a un organismo politico eletto democraticamente. La gente non esce più di casa, se non occasionalmente, e sempre con timore. Standosene in casa al sicuro, grazie a Nuvola, si può ottenere tutto quello che serve ma anche il superfluo. Nuvola, però, non è solo questo, è ormai diventata uno strumento di propaganda del sistema e mostra solo ciò che non turba, cercando di espellere da sé ogni informazione sgradevole o pericolosa. Compito, questo, sempre più complicato, perché da un po’ di tempo, attraverso le sue maglie, filtrano immagini inquietanti, che gli impauriti cittadini attribuiscono a terroristi “acomunitari” che sono riusciti a violare i controlli della rete. L’orrore espulso dalle vite controllate da Nuvola vi ritorna amplificato dalla rete stessa quando infine Nuvola collassa, sommersa da tutto ciò che era stato espulso dalle coscienze dei “comunitari”. Il sistema che garantiva pace e serenità si ribalta allora nel suo contrario. La democrazia e la libertà si rivelano beni effimeri di fronte alla necessità del sistema di combattere per la propria sopravvivenza. Nella soppressione dei diritti dovuti all’emergenza il potere economico riscoprirà infine l’utilità della schiavitù. Saranno pochi coloro che riusciranno a sottrarsi e che unendosi tra loro tenteranno di organizzare la resistenza. Nel frattempo tutta l’immensa cultura accumulata nei secoli è svanita assieme a Nuvola. I pochi libri di carta si trovano nelle poche e vecchie biblioteche che diverranno l’unica possibilità di recuperare il passato. Bisognerà ricominciare tutto da capo, a partire da un’economia minima basata su agricoltura e artigianato. Protagonisti sono Leo, Andrea e Anna (madre di Andrea). Leo è il figlio del ministro degli interni, studente universitario e giornalista. Ama l’”acomunitario” Kaleb (termine che rappresenterebbe l’evoluzione di “extracomunitario” e che sottolinea la privazione del diritto a una propria comunità). Andrea è una bimba di cinque anni, intelligente e vivace, ma soprattutto amata da una famiglia straordinariamente unita (a differenza di Leo, orfano di madre e con un padre complice e ostaggio di un potere invisibile ai più). Anna, la madre di Andrea, innamoratissima del marito Stefano, con lui sarà costretta ad arruolarsi nelle milizie dell’alleanza e diventerà capace di uccidere. Un romanzo distopico che sviluppa temi che abbiamo vissuto nella realtà durante il lockdown e anche prima. La “falsa vita” denunciata dai misteriosi terroristi è una sensazione che ha colto un po’ tutti quando, improvvisamente, ciò che prima si poteva fare è diventato impossibile e le sicurezze che parevano eterne si sono dimostrate fragili com’è sempre stata la vita umana. La contrapposizione tra “comunitari” e “acomunitari” è fin troppo facilmente comprensibile, così come il terrore dell’altro da sé. E i supermercati svuotati, le notizie ufficiali dapprima reticenti e poi fin troppo precise e terrorizzanti, rappresentano la naturale evoluzioni di una situazione d’allarme imprevista che sfocia in uno stato d’emergenza, gestito con difficoltà da un governo che viene giudicato ogni giorno dai suoi elettori. Il romanzo si sviluppa poi verso una possibilità ulteriormente distopica, la mobilitazione generale dell’intera popolazione adulta comunitaria contro un nemico invisibile, riconducibile in fondo anch’essa all’esperienza pandemica ma che qui ricorda, più di altri e ben noti romanzi distopici, una delle prime e più belle graphic novel, una storia che ha influenzato molta della narrazione distopica successiva, “L’eternauta” di Oesterheld. Un elemento originale è costituito dalle “luci” dei morti e dei vivi lontani, riferimento a un sovrannaturale che era stato espulso dal razionalismo di Nuvola e che ora, in un nuovo Medioevo, diventa necessario oltre che profondamente umano. Questo è un tema inusuale ma estremamente interessante in un romanzo distopico: il ritorno allo stato di “natura” che riattiva sensibilità sopite, la telepatia che risorge per l’impossibilità di comunicare in altri modi. La narrazione è sempre in prima persona, sintetica, efficace, e alterna le voci dei tre protagonisti (identificati a inizio capitolo dalla sagoma nera di un animale: una tigre per Andrea, un orso per Leo un coccodrillo per Anna). Da sottolineare la bravura dell’autrice nel far sembrare “naturale” il pensiero di una bambina di cinque anni. (VINCENZO REZZUTI)
In un mondo distopico, che sembra essere la naturale evoluzione del nostro mondo di oggi l’autrice ci propone un romanzo raccontato da tre voci: quella di Anna, una giovane donna, quella di Andrea, sua figlia di cinque anni e quella di Leonardo, un ragazzo che vuole fare il giornalista. Le loro voci si alternano e ci portano all’interno di un mondo dove all’improvviso gli abitanti non possono più comunicare tra di loro e dove forze sconosciute dominano sulla volontà del singolo tenendolo all’oscuro dei propri fini. C’è un lungo crescendo che cattura il lettore all’interno di un mondo sempre più problematico e ansiogeno, dove ogni certezza è perduta e dove sembra non esserci speranza di salvezza. Quello che più di tutto suscita preoccupazione è che l’ evento scatenante succede in un contesto non lontano dalla realtà di oggi, dove piccoli dettagli sono esasperati per portarci in una società che vive nel buio di una caverna e che come visione sul mondo ha soltanto uno strumento: la Nuvola, una specie di canale dove qualcuno decide cosa mostrare e cosa no. Così come qualcuno decide per tutti cosa produrre e cosa mettere in commercio. La scrittura è molto coinvolgente. (LUCIA ZAGO)
Come anche specificato nella prefazione, Natalia Guerrieri ci conduce attraverso una narrazione di tipo distopico; eppure l’inquietante domanda che si fa strada a ogni pagina nelle nostre coscienze è forte e incessante: fino a che punto stiamo parlando di una finzione e quanto c’è di reale in questa storia? L’attuale pandemia ha ridotto il delta tra le potenziali minacce alla nostra società e quelle reali e l’autrice ha attinto a piene mani da questa ennesima prova che la modernità ci sta facendo affrontare. Con l’intreccio di storie parallele si ampia la visuale sul mondo immaginato e si esalta, nei differenti punti di vista, ciò che è da salvare e ciò che va eliminato in quanto nocivo. La prossimità, il dialogo con le figure genitoriali, la cura e l’ascolto di vecchi, animali e bambini l’accoglienza del diverso, la nostra relazione con la natura… dal negativo di una pellicola che sta fotografando un mondo in sfacelo questi concetti vengono alla ribalta, sempre piu’ in evidenza nel corso della storia: sono loro le vere API. Solo salvando loro si salverà il mondo e noi, che neppure vorremmo saperlo, cullati e dominati da una tecnologia sempre più invasiva, dobbiamo aprire gli occhi e fare il nostro piccolo alveare, scaldarlo, custodirlo, partendo dal nostro nido domestico. Un messaggio importante veicolato da una struttura complessa ma di facile comprensione che Non muoiono le api si incarica di portare ad una ampia fascia generazionale. Una lettura certo non spensierata e che poco lascia all’immaginazione. (CECILE TOMBOLINI)
Roberto Contu
La tigna
Quel quindici settembre millenovecentonovantanove – l’autore ne scrive le cifre in lettere affinché se ne percepisca il peso e la forza – apre, scandisce, unisce, segna l’incipit. È il momento d’inizio della scuola, vigilia di fine del millennio, valenza comune di cambiamento. Incipit che è tra i più potenti ch’io ricordi e fa di questo romanzo un gioiello. S’apre con una sfida tra il professore nuovo – cognome Contro, tutto un programma – e gli studenti dell’ITC Danti di Perugia: è subito lezione. Macché lezione: provocazione, duello, corpo a corpo, carica di dinamite, s-contro: lettura de “Il gorgo” di Fenoglio. Il salvataggio, da parte di un bambino, del padre che tenta il suicidio. Tra gli studenti c’è Benedetta, il corpo di Benedetta. Quel corpo custodisce il germe di un altro corpo, futura vita rifiutata dalla ragazza. E poi c’è il corpo di Contro, il professore combattente che custodisce la memoria della figlia Claudia, la sua prematura scomparsa. L’atmosfera è subito densa, quel denso opaco che si respira in certi romans-dur simenoniani, e pare a volte litigare con la scuola, luogo che rigurgita di vita per eccellenza, luogo che va verso la vita, luogo dove si vivono e si nutrono progetti, promesse, idee, sogni, luogo ove si disegna il futuro. Ma il litigio è necessario e perfettamente pilotato, altro s-contro indispensabile. Narrate con apparente semplicità della lingua, queste storie di scelte difficili convergono, riverberano tra e sui personaggi, tra e sui loro corpi. Affiora, con grande e coerente sobrietà, la presenza immanente del divino: il lungo colloquio di Contro con Dio in occasione dell’operazione della figlia, il lungo percorso di dolore, paura e decisione finale di Benedetta. Su tutto, la semplice e complessa, spesso caotica, sempre nascosta e perciò da ricercare, bellezza della vita, quella resistenza accanita che la porta a ricacciare, a germogliare, definita da Contu appunto “la tigna”. (PAOLO CASADIO)
Nel contesto di un’efficace rappresentazione del mondo della scuola alla fine degli anni ‘90, Roberto Contu ci racconta una storia intergenerazionale con un insegnamento notevole: “Le vite possono essere bene”, ovvero la possibilità di scoprire un significato positivo oltre il baratro più profondo, una morale rivelata apertamente nel finale. Affrontando talvolta temi caldi, l'autore si assume il rischio di lasciar affiorare un messaggio ideologico al di là della vicenda umana e sentimentale. Ciò che più emerge è però la rappresentazione viva e realistica delle emozioni, che si manifesta attraverso i gesti, le parole e le reazioni dei personaggi. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
È la storia di due adolescenti alle prese con una gravidanza imprevista, ma è anche la storia dei loro genitori, degli insegnanti e del primo vero amore che non si dimentica. Ambientato nell'ultimo scorcio degli anni Novanta, in Umbria, il romanzo è ricco di citazioni letterarie e riflessioni cristiane sul senso della vita, sulla presenza del male nel mondo e sulla forza del bene (la tigna del titolo) che va avanti nonostante tutto. Scritto in una lingua chiara, con abbondante uso dei dialoghi, il testo a volte indulge in immagini e suggestioni poetiche, ma senza mai strafare. Anche l'evidente spirito cristiano che pervade la narrazione è presente senza mai costringere il lettore a indossare occhiali non suoi. (MARCO SCARLATTI)
Romanzo intriso di vissuto e di sentimenti vitalizzanti che deflagrano in varie direzioni. Chi scrive trasmette il sostrato concreto della scuola (quella con la S maiuscola) e le profonde passioni che scorrono tra le aule e tra i corridoi creando scintille e possibili sviluppi nelle esistenze che entrano in contatto tra di loro. Stile narrativo interessante, vivo e coinvolgente. (DAVIDE TOFFOLI)
Romanzo ambientato all’inizio dell’anno scolastico 1999-2000 a Perugia, tra i professori e gli studenti di un Istituto Tecnico Commerciale. Il temibile professore di letteratura Renato Contro, che intende destare l’attenzione dei suoi studenti con la stessa ossessiva ostinazione dei più antipatici personaggi dei film di Nanni Moretti (viene in mente, più che il professore interpretato da Moretti in “Bianca”, il prete della “Messa è finita”, ugualmente tentato dal desiderio di far coincidere la realtà con la propria fideistica visione del mondo); Francesco e Benedetta, che è rimasta incinta e non sa come fare; Luca, figlio della preside Valentini e la preside stessa, tradizionalmente autoritaria e convinta dei propri doveri come richiede il ruolo, ma abbandonata dal marito e alle prese con la crisi esistenziale del figlio. E poi Don Andrea e il suo padre spirituale, padre Pietro; il marito fedifrago della preside, Franco; Anna, madre di Benedetta, che è stata l’amante di Franco quando lui ha lasciato Roberta Valentini, ma poi è rimasta di nuovo sola. Personaggi un po’ paradigmatici e un po’ reali, tra i quali alcuni emergono per credibilità, mentre ad altri, Renato Contro per primo, ma anche don Andrea, spetta il compito di fare la morale della storia, ed è un compito gravoso e difficile, che può risultare, per alcuni lettori, fastidioso. Come molta letteratura contemporanea, il romanzo ha più riferimenti cinematografici che letterari. Ma più che Moretti il testo ricorda molto certi film di Muccino, con un’attenzione notevole alla cultura giovanile (di fine millennio), l’accurata descrizione di devastazioni familiari e sentimentali e un’abbondante dose di buonismo finale. L’idealismo del professor Contro pare esistere solo per dimostrare la propria inefficacia. Non si può cambiare la vita con la letteratura, pare affermare l’autore, e il compito di un insegnante è più di prendere atto e aiutare che di tentare una trasformazione magica che non funziona. Contro odia il Keating de “L’attimo fuggente”, ma in realtà gli assomiglia molto. La morte di una figlia lo ha reso più cinico e disincantato, ma ha ancora urgenza di aprire le menti dei suoi studenti attraverso la lettura e vive questo compito come l’unico motivo valido per continuare a insegnare, salvo poi porsi dei dubbi, verso la fine, dopo avere conosciuto attraverso la gravidanza prima rifiutata e poi accettata di Benedetta “la tignosa possibilità del bene”, che rende la vita degna di essere vissuta. La personalità di Benedetta è intensa, contraddittoria e per questo più convincente di quella degli altri ragazzi. Sembra consapevole della propria solitudine e della relatività dell’amore, per questo spesso resiste alla tentazione di lasciarsi andare. E se in un primo momento rifiuta l’idea di potere generare una nuova vita, poi comprende la grandezza di quel che le sta capitando e decide di accettarlo. Sua madre appare altrettanto sola e consapevole della propria inadeguatezza genitoriale, incapace di trasformare la sua buona volontà in qualcosa di più di un contatto superficiale, ma accettando di restare distante dalla figlia infine trova un modo per comprenderla e amarla ugualmente. Un’operetta morale, se vogliamo, come quelle di Leopardi che Contro spiega ai suoi studenti, ma ben diversa nel suo contenuto (e non a caso la polemica di Contro nei confronti di Leopardi sembra essere condivisa dall’autore). Che il bene trionfi o meno, sembra dirci, l’importante è credere che possa succedere. (VINCENZO REZZUTI)
Due ragazzi che pensano di non amarsi abbastanza, un uomo che pensa di non poter più amare, una donna che fa finta che l’amore non esista: sono tanti i personaggi che ci raccontano, attraverso le loro storie, il loro modo di vedere l’amore. Sono personaggi sinceri, verosimili, il professore del nostro liceo, i vicini di casa, i nostri compagni di scuola di un tempo, gli amici dei nostri figli. Roberto Contu racconta una storia d’amore e di speranza. È una storia dedicata a giovani uomini e donne per invitarli a guardare le situazioni da più punti di vista, per ricordare loro che è necessario tenere sempre presente quanto l’amore possa influire sulle scelte, per insegnare loro a fare attenzione per non lasciarsi sopraffare dalle situazioni contingenti che possono essere piene di problemi apparentemente insolubili, ma di andare sempre all’essenza delle cose, dove si trova il valore che ci nutre dal profondo. La scrittura è diretta e sincera come i personaggi che popolano la storia. Peccato per i numerosi refusi e imprecisioni che sarebbero stati facilmente rilevati con una rilettura accurata. Tutto ciò non toglie nessun merito alla storia, rileva solo poca cura da parte della casa editrice. (LUCIA ZAGO)
Notevole l'estrema limpidezza del racconto, umo spaccato della realtà odierna.
Al centro l'impatto di una coppia di studenti prossimi alla maturità, con un problema più grande di loro: dare o negare la vita. Apprezzabili la scorrevolezza e soprattutto la semplicità nella narrazione. I personaggi sono ben descritti, ben inseriti nel contesto in cui si muovono. Rilevante il personaggio del professore fuori le righe che pungola e stimola gli alunni per uno studio vero e consapevole. (LILIANA CAPONE)
Mansueti e idealisti ma senza troppa convinzione sono i protagonisti di una storia significativa e rasserenante che pur non avendo nulla di straordinario o di pesantemente drammatico ci porta ad una riflessione sulla nostra vera grande lotta: quella per attraversare l’esistenza sempre e comunque nonostante le svariate difficoltà che si possono presentare sulla nostra strada. Nonostante e “Contro” come il cognome del professor Renato, uno di quelli che insegna mettendoci tutto sé stesso pur con alle spalle un dramma familiare. Apparentemente distaccato si cura invece di offrire preziose perle ai suoi studenti. Si arrischia su Pasolini, ha il piglio del docente che elargisce la verità giusta nelle dosi giuste, infonde rispetto, svela insomma grande amore per il suo lavoro. Appaiono tutti nel fondo un po’ spersi ed esitanti, non troppo convinti delle loro lotte, pure chi come Benedetta, sicura di sé e forte della sua giovane età, al fine di affrontare una situazione di grande difficoltà come prima cosa va a rifugiarsi nei luoghi del passato. Il flusso vitale scorre nella quotidianità di questi individui, che non percepiscono vere e proprie paralisi alla Joyce ma si danno da fare pure se appesantiti dalla pesante cappa di dubbi e di dolore esistenziale che avvolge ogni loro storia. Don Andrea: un po’ alla Nanni Moretti in La Messa è finita, certo di dover aiutare ma incerto sull’autenticità della sua missione. Francesco: innamorato di Benedetta ma sembra non vedere altro. Luca: aggrappato agli amici. Il valore che infine emerge sull’intera vicenda è quell’ incessante perseveranza che nel titolo l’autore identifica genuinamente con il termine “tigna”. Come a un legno ci si attacca per non affondare, quasi un istinto, uno slancio vitale anzi di piu’: una caratteristica intrinsecamente umana, la piu’ importante forse , che salva e fa proseguire l’esistenza. Per “tigna” ognuno supera le sue barriere, imposte o fatte subire dall’esistenza, per “tigna” nasce una nuova vita, in conflitti si appianano e finalmente non piu’ soli si continua a percorrere la propria strada proiettandosi nel futuro. (CECILE TOMBOLINI)
Valerio Cruciani
Lo scioglimento dei ghiacci
Roberta ha tutto quel che potrebbe desiderare: svolge il lavoro di glaciologa per cui ha studiato, ha una famiglia normale, una figlia avviata alla sua stessa carriera scientifica, un marito che la ama, e in più è una bella donna. Eppure, c’è un eppure. La sua decisione di partecipare quale protagonista in un film per adulti appare, una volta scoperta, incomprensibile a tutti. Per i meccanismi veloci del web, quel film diventa rapidamente tra i più scaricati e un successo globale. Tutti vedono Roberta, anche quelli che la conoscono. Inevitabile l’innescarsi di conseguenze a cascata sia nella sua vita, sia in quella dei familiari. La struttura del romanzo si frammenta, come tanti iceberg trasportati dalle correnti, in diversi punti di vista, anche di oggetti inanimati che però hanno un peso, un significato nel dipanarsi della storia: tutti parlano, tranne Roberta che, nell’immaginario di molti, finisce di essere una donna, un’amica, una compagna di scuola, per assumere le sembianze appetibili di un corpo femminile disponibile a qualsiasi violenza. La domanda che ci si pone all’inizio – perché mai Roberta voglia consapevolmente rovinarsi la vita – riceve tante risposte di parte, tanti punti di vista. L’unica voce silente è la sua. Queste risposte, questi punti di vista hanno un unico comune denominatore: condannarla, metterla alla gogna. Anche se la scelta di Roberta è personale, libera, cosciente e perciò insindacabile. Felici intuizioni narrative – come il dar voce agli oggetti che, in un modo o nell’altro, modificheranno lo svolgersi degli eventi – si coniugano con la capacità dell’autore di entrare nelle complessità psicologiche dei personaggi. Un romanzo difficile, a volte scabroso, in cui tutti finiscono per essere vittime di se stessi tranne la vittima ufficiale. (PAOLO CASADIO)
Lo scioglimento dei ghiacci è un’opera non convenzionale sulle perversioni, tra lo scandalo e un'incompresa voglia di libertà. Un romanzo in cui puoi aspettarti di tutto, anche di sentir parlare in prima persona i morti, gli organi del corpo umano e gli oggetti inanimati. La narrazione procede per frammenti che insieme formano, citando un'espressione fornita proprio dal testo, "un ritratto spezzettato e contraddittorio". Le varie prospettive a cui il libro dà voce si alternano e si contraddicono mostrandoci visioni parallele della stessa vicenda, come la sceneggiatura di un film soggetta a continue modifiche. Il confine tra realtà, ipotesi e allucinazione sfuma di continuo. Qual è la verità oggettiva? Forse non è così importante, se riusciamo ad abbandonarci al “biforcuto desiderio di sapere e di non sapere". (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Colpisce, di questo romanzo a più voci e punti di vista, l'uso ricercato della lingua che contrasta nettamente con la materia trattata (una donna come tante, studiosa di ghiacciai, che un giorno decide di girare un film porno con tre uomini). Felice la scelta di lasciare nell'ombra le vere ragioni che spingono la protagonista a un gesto così lontano dalla sua immagine sociale e da ciò che è considerato etico e accettabile. La robusta costruzione dei personaggi fa sì che la credibilità della storia non ceda mai il passo all'inverosimiglianza. Testo scomodo, ma mai volgare né banale. (MARCO SCARLATTI)
Ciò che colpisce sono lo shock e la trasgressione, forse eccessivamente ostentata, che abbraccia tutti i protagonisti e i personaggi con cui entrano in collisione. Superati la sorpresa e lo spiazzamento iniziali, la storia non riesce a creare una reale empatia in chi legge e rischia di risultare addirittura prevedibile negli sviluppi. (DAVIDE TOFFOLI)
Roberta, scienziata che studia il cambiamento climatico, madre di una figlia già adulta e moglie di un produttore cinematografico, si lascia convincere da una regista di film pornografici a partecipare a delle riprese hard. Il marito, scoprendo per caso un suo video su internet, concepisce come unica possibile rivalsa nei suoi confronti l’omicidio. Romanzo che descrive la possibile genesi di un femminicidio, ma non solo. L’esplosione della sessualità di una donna, alla prima occasione offertale, non ha spiegazioni, e l’autore si priva, nei capitoli dove la vicenda si svolge in terza persona, della possibilità di analizzare in profondità l’incapacità del maschio di comprendere il desiderio femminile. Roberta (nome che richiama un famoso romanzo erotico, “Roberta stasera” di Pierre Klossowski) è una ricercatrice sensibile al dramma climatico, studiosa dei ghiacci che non si avvede che anche il proprio ghiaccio, che come quello dei ghiacciai rende sicura la vita, è in procinto di sciogliersi. Come la Roberta del romanzo francese inizia a obbedire alle “leggi dell’ospitalità” offrendo il proprio corpo in un’unione generosa e gioiosa con gli “ospiti”, la Roberta di questo romanzo si cala in un mondo che non è il suo, il set di film pornografici, trovandovi uguale e ineffabile possibilità di abbandonarsi a corpi sconosciuti. Tutto ciò l’uomo, il marito, non riesce a comprenderlo, legato com’è all’idea maschile del sesso come dominio privato. Il tradimento, soprattutto perché inconfessabile, è un affronto che suscita un desiderio di vendetta che è ben più profondo e animale del desiderio insoddisfabile della moglie. Ma le ragioni dell’uomo latitano, il marito sembra avere immediatamente voglia di accoltellarla o spararle, senza che l’ira monti, senza che il ragionamento (quanto ci manca Simenon) lo porti piano piano, superando mille ostacoli etici, a trovare un motivo logico per farlo. Nessun uomo, nemmeno il più maschilista, è privo di freni etici, ma questi vengono superati spesso con l’ausilio proprio di quella ragione che dovrebbe evitare di commettere delitti. Tutti hanno bisogno di una giustificazione, anche per le azioni più turpi. Il marito di Roberta si limita invece ad attendere un momento inevitabile, crogiolandosi nel proprio disonore e presentendo la rovina, complice anche l’inevitabile timore di una denuncia per avere “quasi” violentato una giovane regista (un riferimento un po’ gratuito all’attualità). Se il romanzo riesce come racconto erotico, al netto di un po’ di caos narrativo non del tutto giustificato, fallisce nel tentativo di essere innovativo e superare i confini di genere. Che gli uomini non resistano di fronte alla molteplicità del femminile già si sapeva, è già stato scritto migliaia di volte. Si poteva dire di più e diversamente, ma di fronte alla possibilità di descrivere la complessità l’autore sembra ritrarsi, facendosi attrarre da facili stereotipi. Detto questo, bisogna riconoscere all’autore ottime capacità di scrittura e di costruzione narrativa, anche se non tutti i capitoli sono alla stessa altezza. La frammentarietà programmatica (che ricorda ancora una volta Klossowski), con continui e talvolta disorientanti spostamenti temporali e di punto di vista e con scenari possibili che vengono continuamente riscritti, è interessante e potrebbe essere foriera, in futuro, di risultati più convincenti. Il difetto principale, ricollegandosi a quanto detto sopra, è che di fronte alla possibilità di trattare situazioni complesse, l’autore tende a semplificare troppo, cercando forse l’approvazione di lettori impazienti. Appare dubbio il tentativo di legarsi all’attualità (femminicidi, “metoo”, gogna mediatica) in modo troppo programmatico, senza volontà di approfondire. La realtà è più complessa di come appare nei telegiornali e non basta dire che le cose sarebbero potute andare in un altro modo, e nemmeno basta dare voce a una pistola o a una pancia, cosa che l’autore fa senza riuscire ad aggiungere senso alla storia. La letteratura oggi, in un mondo dove tutto rischia di finire registrato da qualche parte, dovrebbe servire a mostrare cosa accade nel silenzio e nel buio delle menti. (VINCENZO REZZUTI)
Una storia raccontata a più voci, le voci più impensabili, ognuna testimone di una stessa vicenda dai toni scabrosi ma vista da diversi punti di vista. La discesa verso il baratro e l’improvvisa consapevolezza che non tutto è perduto, che, in fondo, amare significa accettare l’altro anche nelle sue sfaccettature più remote e sconosciute. Il romanzo racconta l’inevitabilità così come la volontà di scavare fino in fondo ai propri desideri più nascosti e scoprire una parte di sé inaspettata e poi la consapevolezza che non sarà facile gestire questa nuova espressione della propria personalità. Racconta poi la rabbia di sentirsi violati nell’intimità, la vergogna di sentirsi gli occhi puntati addosso, il senso del pudore violato. Raccontano questa vicenda nei dettagli le voci più disparate: persone e oggetti, tutti protagonisti, tutti osservatori, ognuno capace di spingere in avanti la trama attraverso la testimonianza dal proprio punto di vista privilegiato. In termini di narrazione è una storia ben riuscita, sono proprio le diverse voci che coinvolgono in maniera abbastanza originale il lettore che si trova spiazzato rispetto a questa alternanza. (LUCIA ZAGO)
Saverio Giuseppe Petitto
Il passo di Annone
Il passo di Annone è un romanzo sulla colpa, sul riscatto e sulle opportunità. Una, anzi, due storie, che si sviluppano in parallelo e che rappresentano due realtà alternative con al centro la stessa anima. La prima si svolge in una misteriosa prigione dove “nessuno faceva domande, nessuno ricordava. Tutti accettavano senza discutere regole apparentemente autoimposte e forse neppure codificate”; la seconda, in apparenza più ordinaria, delinea un percorso di vita che il lettore è chiamato alla fine a ricostruire. Nel testo, ogni dialogo può diventare il pretesto di una riflessione, e ogni immagine descritta può manifestarsi come un riflesso dell’interiorità dei protagonisti. Se da un lato questa caratteristica sacrifica in parte la leggerezza della lettura, dall’altro permette alla storia di arricchirsi costantemente di significato. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Tutto si snoda attorno ad un'idea opprimente di reclusione, tra prigione e casa di cura. In ogni caso si cerca una strategia di sopravvivevnza e di evasione, due percorsi speculari e due viaggi opposti. Decisamente suggestivo. (DAVIDE TOFFOLI)
Stefano Pomes
Ti prego non ridurmi a icona
Cercando una definizione per questo romanzo nella sua originalità, lo si potrebbe chiamare “romanzo multimediale”, per il modo in cui l’autore si impegna a intrecciare scrittura e musica. Il testo si presenta nella forma di un discorso che il protagonista-narratore rivolge al cantautore romano Niccolò Contessa, chiamato in causa di continuo, come un ignaro e muto coprotagonista, la cui ombra ispira e al contempo intimorisce. In una delle sue riflessioni, il narratore afferma: “in fondo la musica è questo: raccontare di piccole cose quotidiane, cose di ogni giorno, con sensibilità”. Ecco, possiamo dire esattamente lo stesso a proposito di questo romanzo. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Narrazione interessante che procede specchiandosi nei testi delle canzoni citate o nei titoli e nelle parole dei libri incontrati. Una scrittura, un racconto che sono soprattutto ricerca di sé, ma che non sempre approdano realmente ad una storia. Del resto, però, ci si forma specchiandosi. (DAVIDE TOFFOLI)
Sezione B: Romanzi Inediti
Luigia Bencivenga
Zero virgola
Zero virgola è un romanzo così matto, se non fosse così matto parlerebbe di degrado dei luoghi, delle coscienze, delle relazioni; di violenza, concreta e simbolica esercitata con noncuranza e cecità. Ma siccome è un romanzo matto assai, benché possegga una struttura persino salda, ti viene incontro con le parole che ribollono, che occupano ogni anfratto e mirano in su, in giù, non si danno limiti: dialoghi folgoranti, narrazioni raccapriccianti, è la costruzione di un caos magnetico, schizzato, per niente allegro, euforico, vitalissimo che non può che suscitare ammirazione e assurda allegria. (CAROLA SUSANI)
Garryowen, cane che compie buone azioni il cui nome ricorda il cagnaccio del Cittadino di Joyce, salva da morte certa il professor Sauro Consilia, aggredito da altri cani mentre, sul colle “dei guardoni”, spiava una coppia di amanti. Il suo padrone è Mimì Nasone, detto Figlio delle Stelle, tossico moderato e bevitore di rum e, si scoprirà, figlio dello stesso Sauro. La guardia giurata richiamata da Garryowen, credendo che sia lui il responsabile del massacro del professore, lo uccide. Da qui poi inizia, con una festa a casa del sindaco, una storia un po’ stralunata e un po’ corale, in generale molto godibile, che trascina con sé il lettore grazie a una prosa dai toni jazz. Ambientato ad Ilias (non il borgo albanese sulla riva dello Ionio, ma una città di fantasia del sud Italia), il romanzo è un pirotecnico susseguirsi di microstorie con alcune caratteristiche in comune: il desiderio nelle sue varie forme, represso, morboso o sfrontato, i tradimenti, l’ipocrisia dei ricchi e dei preti, i cani, la morte arrecata a sé o ad altri e in particolare ai cani stessi. Si torna poi a Mimì Nasone, alla sua madre avvelenatrice di cani, al suo Amico Immaginario, agli spacciatori che Mimì frequenta, rappresentazione di un mondo tra il fantastico e il reale tutt’altro che scontato. Mimì fa il trasportatore di salme ed è un fan dei Kiss, dei quali imita l’aspetto truccandosi da “Figlio delle stelle”, con riferimento allo “Star Child” Paul Stanley. C’è poi Sauro Consilia, la vittima iniziale dei cani, direttore del carcere e guardone a tempo perso. Ha inventato un metodo di riabilitazione per i detenuti che consiste nel leggere Dostoevski (al quale è stato intitolato il carcere) e la Bibbia, ascoltare Mahler e fumare marijuana. Al metodo viene sottoposto Dante De Rosa, pedofilo e assassino di bambini. E poi il Vecchio, che dopo una giovinezza tossica diventa ricco imprenditore di cibo per cani, ma poi fugge dal suo successo per nascondersi nel paradiso in terra di Cala Renella, coi suoi amici e tre prostitute. E così via. L’autrice scrive senza incertezze, un po’ alla Mattia Torre, osando a volte oltre il lecito, non preoccupandosi troppo di costruire una trama narrativa unitaria, ma non perdendo mai il filo del discorso. Un lettore che sia alla ricerca di qualcosa di nuovo nel panorama narrativo si troverà facilmente a suo agio nella grottesca rappresentazione di una sensualità onnipresente declinata in tutte le forme possibili, comprese quelle zoofile. E qui occorre sottolineare la presenza dei cani. Onnipresenti, vezzeggiati e torturati, spesso uccisi, altre volte compianti, sono essi stessi l’incarnazione di un desiderio originario e privo di razionalizzazioni che l’umanità sottomette con l’illusione di curare così le proprie carenze affettive. I cani sono il complemento necessario della popolazione di Ilias, raccontata sia nella sua componente alto-borghese che in quella periferica e tossica, con centinaia di microstorie tra il balordo e il fin troppo vero, rappresentando grottescamente i mali del meridione e non solo, mali che dipendono, sembra dire l’autrice, più che dalla miseria, dall’ipocrisia e dall’ignavia dei ricchi e dei potenti. Non esclusa la Chiesa, ai cui rappresentanti non risparmia una satira feroce forse meritata più in passato che adesso. La sensualità è presente in ogni pagina di un romanzo che, nonostante le apparenze, è profondamente legato al meridione e alla rappresentazione grottesca degli aspetti più terragni della sua gente. Ma è presente anche la morte, a cominciare da quella del subito mitico Garryowen, e Mimì Nasone ne è in fondo un sacerdote, dato il mestiere e l’abbigliamento rock funereo. Sesso (più che amore), morte, malattia e superstiziosa devozione sono i temi che riallacciano questo nuovissimo romanzo alla narrativa meridionale in particolare partenopea (sembra persino di sentire in alcune pagine i lontani echi di La Capria, Marotta e, per quel che riguarda i dialoghi, del teatro di Eduardo). L’autrice usa diversi registri narrativi con perizia e se c’è qualche incertezza il lettore non la nota, sommerso da tanta e feroce fantasia. Scappa pure qualche risata spontanea, e non è poco. (VINCENZO REZZUTI)
Zero virgola è un romanzo molto difficile da riassumere. È un insieme di storie e personaggi, umani e non, che si incontrano e si scontrano in un luogo inventato ma localizzabile e che danno vita a una narrazione surreale, comica, satirica, a tratti anche teatrale. Per quanto il testo a volte sembri strabordare e necessitare di qualche limatura, la forza immaginifica che lo sorregge è davvero notevole. A fronte di molti romanzi assai concentrati per trama e punto di vista, Zero virgola è un’esplosione di avventure, sguardi, voci, linguaggi. È un testo che richiede una certa attenzione per seguire le sue mille diramazioni ma che è in grado di ripagarla ampiamente. Zero virgola spiazza e diverte, confonde reale e surreale, uomini e cani, e dà così al lettore qualcosa che assomiglia molto al puro e semplice piacere di leggere per, appunto, piacere. (RENATO NICASSIO)
“Zero virgola” di Luigia Bencivenga è una storia costruita a mosaico, a pastiche, a incastro. Lo stile è ambizioso. Si nutre di una forte e insistente nominalizzazione; di un’aggettivazione talvolta barocca e ridondante, ma studiata; i dialoghi, fortemente irrealistici, sono comunque evocativi. Il mondo costruito dall’autrice è intrigante, ma talvolta eccessivo. Il dark humor, il surrealismo, l’ironia basata sul “costantemente troppo”, non sempre funziona. Quando funziona è a tratti esilarante, a tratti solo gradevole; quando non funziona è come un gesso che striscia sulla lavagna. La dimensione grottesca, esasperata, a tratti fantozziana, richiede una dosimetria di precisione, e talvolta sembra invece che sia abbondantemente scappata la mano. Anche la dimensione sessuale è a tratti eccessivamente ricca di effetti speciali, non si capisce se voglia stupire o approfondire, quando con poche attenzioni e un passo indietro diventerebbe una notevole chiave di interpretazione sociale. L’incastro caleidoscopico e postmoderno del romanzo è senza dubbio interessante ma forse non ben riuscito fino alla fine. (MICHELE FRISIA)
Fabio Laiso
La conversione
Ne “La conversione”, romanzo breve di Fabio Laiso, il protagonista è anche voce narrante, e racconta in una sorta di lunga confessione i suoi stati d’animo, pensieri, la sua peculiare postura nei confronti del mondo. Senza eccessi né effetti speciali, l’azzeccata voce del protagonista coinvolge e spinge il lettore a entrare sempre più nel suo mondo. La vicenda cardine del romanzo, il colpo di pistola che ferisce il personaggio e lo sprona a modificare il suo atteggiamento verso la vita, arriva intelligentemente lontano dall’incipit, quando ormai conosciamo il protagonista e non ci possiamo più stupire delle sue reazioni. Lo stile concorre alla buona riuscita dell’opera. Il ritmo dettato dalla lunghezza e dall’alternarsi delle frasi; l’uso sapiente dei tempi verbali; il lessico coerente; le anticipazioni; elementi che concorrono tutti a rendere la voce familiare e inedita, coinvolgente e straniante. I personaggi sono ben costruiti anche con pochi dettagli e comportamenti, e sono tutti dotati sia di una spiccata quotidianità, che di lati oscuri e di un modo complesso di gestire le relazioni. Il romanzo in definitiva, senza usare “trucchi da quattro soldi”, riesce a rendere bene l’arco di un personaggio che (soprav)vive alla vita. (MICHELE FRISIA)
La conversione è un breve romanzo che racconta la rinascita affettiva e spirituale di un uomo (ragazzo?) di trentatré anni dopo una vita fin lì condotta in una sorta di torpore esistenziale. Il testo risulta ben scritto e la sua relativa brevità risulta funzionale allo scopo: raccontare, come dice l’autore, uno di quei momenti rari e meravigliosi che esistono nella vita. Tuttavia, si ha a volte l’impressione che l’introspezione psicologica e la cura formale del testo non compensino a pieno l’esiguità di trama e di svolgimento della storia. La conversione è a tratti più vicino a una riflessione che a un romanzo e questo inficia un po’ il piacere e il senso della lettura. (RENATO NICASSIO)
È sicuramente il manoscritto che mi ha maggiormente coinvolto, ho apprezzato la tecnica narrativa e la nitidezza con la quale chi scrive è riuscito a rievocare sensazioni ed emozioni altrimenti difficili e insondabili. (DANIELA PIANETTI)
Placido Di Stefano
Apnea
Apnea racconta, intrecciando piani temporali diversi, la storia di formazione e distruzione di una famiglia: Yuri, Emma e la loro piccola figlia Giulia. I narratori, così come i piani temporali, si intrecciano dando vita a un’alternanza di voci: quella di Yuri, quella di Giulia, quella di un narratore esterno (ma focalizzato su Yuri che è il vero protagonista del romanzo). La storia procede così, a tasselli temporali e prospettici, mantenendo quasi sempre un buon ritmo e tenendo vivo l’interesse del lettore. La voce di Giulia, tuttavia, non risulta sempre convincente e credibile, e del resto è sempre assai complesso, per uno scrittore adulto, far parlare una bambina soprattutto se questa deve raccontare eventi che riguardano gli adulti. Verso la parte finale del testo, la storia sembra poi perdere un po’ di forza propulsiva e avrebbe forse necessitato di qualche modifica, anche solo di qualche taglio. (RENATO NICASSIO)
“Apnea” di Placido Di Stefano è una storia quotidiana, che narra l’evoluzione di una coppia dalla conoscenza al matrimonio, dalle crisi alla genitorialità, dalla rottura alla tragedia, e che per farlo utilizza una metodologia non tradizionale. I salti temporali sono molti, come anche la variazione delle voci, tre in particolare: il protagonista Yuri in prima persona, sua figlia che frequenta le elementari, anch’ella in prima persona, e una voce narrante “fuori dal tempo” in terza. Completano lo spettro delle esposizioni alcune sedute di psicoterapia, raccontate in dettaglio. La lingua utilizzata è pop. Mescola gergo, tecnicismi, titoli ed estratti di canzoni, neologismi, per ottenere una voce contemporanea, coerente e credibile del protagonista, lingua che struttura il mondo in cui è ambientata la vicenda. Questo è forse il più grande punto di forza del romanzo. Meno efficace è la voce della bambina che, se all’inizio è perfettamente intonata, col tempo indulge troppo spesso in uscite linguistiche e pensieri propri solo di un adulto. Le parti di narrazione della bimba sono forse le più deboli del romanzo, talvolta addirittura inutili. L’unico altro punto debole sono le sedute terapeutiche, nelle quali la psicologa assume troppo spesso un atteggiamento aggressivo, incompatibile col suo ruolo. (MICHELE FRISIA)
Sezione C: Racconti Lunghi
Livio Milanesio
L'uomo nel fango
Struggente e terribile come una fiaba, raccapricciante come una storia dell’orrore, L’uomo nel fango racconta di un mondo che sembra distopico, ma che forse è proprio il nostro mondo, colto nella rarefazione, nello svuotamento. Due palazzi, un tempo occupati da gente disperata poi abbandonati, ospitano una ragazza e un bambino. Il bambino vede un uomo che emerge da una pozza di fango e gli va incontro. In poche pagine l’eco della grande letteratura sull’infanzia, dal Golding del Signore delle mosche fino al McEwan di Giardino di cemento: una lingua essenziale e densa racconta chiusura tenera e difensiva, sete di relazione, scoperta, inesorabilità. (CAROLA SUSANI)
Ciò che colpisce subito del racconto L’uomo nel fango è il segno meno davanti al numero di pagina: l’autore, curiosamente, ha scelto di presentarci le pagine come una sorta di countdown verso il finale, quasi l’attesa di un’autodistruzione già programmata. E del resto la vicenda, non a caso, procede proprio verso il disfacimento. Immaginando un contesto di enorme degrado, forse persino un mondo post apocalittico, Livio Milanesio ci fa riflettere su cosa possa accadere al senso dell’identità individuale quando la civiltà crolla, la realtà si sgretola e i rapporti umani diventano soggetti a nuove, terrificanti regole. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Narrazione che procede a lampi e che a strappi decisi plasma una storia, quasi liberandola dal fango, come accade ai piedi nudi dell'uomo misterioso liberati dalle sabbie mobili del campetto di calcio. (DAVIDE TOFFOLI)
Bella e accurata descrizione di un fine civiltà in atto che con capacità narrative affini a certi romanzi distopici americani degli ultimi tempi ci porta per mano in quartieri disastrati e abbandonati al degrado di una nostra grande città, immergendoci in un'atmosfera di disfacimento, oscura e realistica ad un tempo, però non originalissima. Al racconto, pur di pregevole scrittura, manca il guizzo che lascia a bocca aperta il lettore dopo che si è lasciato condurre favorevolmente per mano nello sfizioso percorso che conduce a un fin troppo atteso “non aprite quella porta”. (LEANDRO LUCCHETTI)
Una storia dal vago aspetto distopico, pur se basata su situazioni non prive di riferimenti alla realtà contemporanea. Il quartiere popolare è stato abbandonato dai suoi abitanti perché diventato teatro di una guerra per le piazze di spaccio. Nella desolazione e nel degrado assoluto continuano a vivere Elvis e Fanni, figure che nella loro voluta indeterminatezza ricordano tanti personaggi di Cormac McCarthy, a cui l’autore si può forse essere ispirato. Il loro rifiuto di andarsene è legato a un segreto che lentamente affiora e che coinvolgerà l’ignaro Pietro, quando verrà sorpreso da Elvis mentre fa l’amore con Fanni. Nell’infinita ripetizione di un delitto edipico il racconto giungerà alla sua conclusione. Desiderio e affetto come atti di follia in un mondo dove convivere è diventato pericoloso: questo è il succo della sensazione provata leggendo questo racconto, affine a tanti altri racconti e film di questo periodo. Decisamente ben scritto, conciso ed efficace, si legge quasi d’un fiato. (VINCENZO REZZUTI)
Una storia nera, con un'ambientazione accurata e vivace, ed un colpo di scena finale inaspettato e ben dosato. I personaggi sono ben tratteggiati ed il linguaggio mi è sembrato pertinente. (ROSELLA BOTTALLO)
Domenica Rapicano
'Colata
‘Colata è una singolare rappresentazione degli effetti della pandemia su un universo chiuso e isolato come un convento. La protagonista, una serva orfana dai denti neri “con il nome e l’anima mozzata”, racconta in prima persona la sua vita fatta di angherie, squallore e presunta devozione, mentre all’esterno si scatena “la fine del mondo”. In una narrazione rapida e volutamente disadorna, le preghiere e le formule religiose si mescolano alle imprecazioni e alle immagini ripugnanti unendo l’intero racconto in un solo fortissimo grido di (in)sofferenza. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Un'invettiva che sgorga muta dalle viscere di una bocca di denti neri, “buco del culo di Dio”, sfogo senza voce di 'Colata, un'Immacolata spezzata perché figlia di puttana e indegna dell'attribuito completo di Maria, bambina segnata dal Diavolo e battezzata non con l'acqua benedetta ma col piscio di suora. Una scrittura come uno schiaffo rigurgita il rancore dell'orfana, imprigionata a vita in un convento di suore aride, crudeli e opprimenti. Una pantenìa, anzi no, una pantosìa (così la serva ignorante rimugina dentro di sé il difficile termine pandemia) è l'occasione che Dio (forse) ha di prestare attenzione (“Sturati le orecchie per una volta e ascolta...” gli dice) alla ribellione interiore della reclusa schiavizzata, che tale appare 'Colata come se non dei nostri giorni si trattasse ma di un medioevo mai cessato dove la femmina che si ribella non può che essere indemoniata e finisce, bene che vada, sul rogo. Il rogo di 'Colata è liquido e putrido, non di fiamme ma di merda e piscio e vomito e diarrea delle suore malate che deve pulire mentre soffoca nel puzzo ma assapora il vederle morire una ad una. E chissà che da questi escrementi, materia di espiazione, non maturi un angolo di Paradiso, metti che Dio ascolti, pure per lei che non ha mai visto il mondo fuori di quelle mura. Quadro senza indulgenze, composto di ombre caravaggesche. Scrittura che ti percuote al petto e lascia un livido. (LEANDRO LUCCHETTI)
Ho trovato molto originale il linguaggio, crudo ed esplicito, inframmezzato da frammenti di preghiere e invocazioni ripetute come mantra della coercizione. Il personaggio ha uno spessore drammatico, e le sue vicende quasi senza tempo sono narrate con straziante realismo, in cui la violenza delle recriminazioni è continuamente temperata dalla pietà. L'intreccio fonde con realismo la ricostruzione di una vita senza orizzonti di libertà con l'attualità della pandemia e dei suoi effetti nel microcosmo conventuale. (ROSELLA BOTTALLO)
Con stile originale, realistico e crudo, l'Autrice ci introduce in un contesto singolare, inconsueto: un convento di suore, ai tempi della pandemia. Voce narrante è la donna che, giunta al convento da piccolissima e portatrice di una disgustosa malformazione, funge da "serva" per le religiose, svolgendo anche i compiti più gravosi e sgradevoli. Ne risulta una puntuale e lucida descrizione dei vari tipi umani non priva di durezza e crudeltà, risultato delle continue umiliazioni e dell'infelicità cui la donna ha dovuto suo malgrado abituarsi sin da bambina. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Un bel racconto, semplice e pieno di forza, incentrato sulla voce unica della narratrice e
protagonista. Donna sfruttata da altre donne, sgorbio vivente sottoposto a una quotidiana via crucis da chi dovrebbe voler bene agli ultimi, ‘Colata vede nella pandemia un’occasione di vendetta offerta dal cielo. Non vi si sottrae, vuole “vederle morire con gli occhi suoi, una a una”, senza temere di perdere per questo il Paradiso dove, per diritto acquisito, andranno comunque le suore che l’hanno trattata male, perché è certa che il Signore l’accoglierà ugualmente “sul carro alato della resurrezione”, per tutte le pene a cui l’ha destinata. Una storia di rancore e vendetta narrata con il linguaggio popolare della protagonista, che rende efficacemente la sua risentita innocenza. (VINCENZO REZZUTI)
Stefania Marongiu
Un talento raro
Questo racconto potrebbe parlare di un ragazzo, Francesco, e delle sue giornate prima, durante e dopo la strage di Bologna, in cui suo padre perde la vita. Oppure niente è ciò che sembra, e il ragazzo è invece un’anima per sempre giovane, perché ha già lasciato questo mondo, e la sua vita è ora soltanto immaginata da qualcuno, sospesa nell’irrealtà. La figura misteriosa del Dottore, nella sua enigmaticità, sembra celare la chiave per comprendere questo testo in cui ogni parola ha il suo peso. L’autrice alterna sapientemente un linguaggio forbito, con punte poetiche, a uno rozzo e immediato che stride con il primo. In poche pagine, una visione originale, onirica e profonda di una tragedia etica e umana. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Bozzetto metropolitano di quartiere che un poco artificiosamente riporta all'oscurità della strage alla stazione di Bologna. Si ha l'impressione di un déjà vu che scorre via con scrittura piana che non riesce ad elevarsi fino a catturare chi legge. (LEANDRO LUCCHETTI)
Un racconto che torna su uno dei momenti più crudeli della nostra storia, l’atto conclusivo dell’epoca dello stragismo manovrato dai servizi segreti deviati. Il ritratto, appena abbozzato, del “dottore” si contrappone a quello di Francesco, inconsapevole vittima di sinistre manovre congegnate da menti remote. La sua giovinezza è vista dal “dottore” come un “talento raro” che non perderà mai, neppure da vecchio. Ma è l’innocenza il vero talento che il “dottore” forse rimpiange, quello che lui ormai non potrà più avere. Un racconto semplice e lineare che ci ricorda un periodo della nostra storia che non riusciamo ad archiviare, perché ancora pieno di domande prive di risposta. (VINCENZO REZZUTI)
Sezione D: Racconti Brevi
Alessandra Serena Cappelletti
Vita vegetale
Di Vita vegetale, la cosa più interessante è l’intonazione della voce, un’ira trattenuta, che si scioglie a volte in nervosa tenerezza e a volte si esprime a voce piena, senza contenimento. In parallelo scorrono due vite, una vita umana giunta al suo termine e la vita di un albero il cui tronco è tranciato di netto. In un andirivieni nei ricordi, si raccontano i legami, la violenza. La struttura del racconto ancora un po’ acerba sostiene una scrittura piena di potenzialità. (CAROLA SUSANI)
Questo racconto levigato è un abbraccio alla vita, sebbene parli di vite mozzate. Il parallelismo inevitabile tra la vita vegetale del fratello, affidata alle macchine, e quella dell’abete altissimo con le radici avvinghiate alle tubature dell’acquedotto e per ciò condannato. Lui, l’altro fratello, sa. È la vigilia del distacco del respiratore. La coscienza dell’addio induce a un viaggio di memorie, in un passato di bambini insieme, in quel condominio a forma di pesce in mezzo alle risaie. Pesce, ichthys, acronimo di Gesù Cristo? Tutto può essere. Una famiglia, la loro, giunta per prima. E, isolati in quel condominio disabitato che capovolge il primato, fa ombra alle altre residenze e per questo li classifica come ultimi – beati gli ultimi? Anche questo può essere – i due fratelli compiranno i passi puntuali di chi deve crescere. Si serra il legame tra bambini, suggellato da fionde e danneggiamenti; si salda la complicità, l’affetto. “Tutto quello che siamo stati è ancora con noi. Tutto quello che siamo stati, lo siamo ancora.” Il tempo trascorre, il tempo consuma le età. Il tempo si apre alle domande immutabili, eterne. Quelle che cercano il senso, il perché. Quelle che vivono di ricordi. E il senso, e i ricordi, sono nell’abbraccio di sette notti di veglia, sono nell’abbraccio della ragazza sconosciuta all’albero condannato. (PAOLO CASADIO)
Un lungo flashback isola lo spazio del ricordo, uno spazio di densità quasi metafisica. Il narratore vi proietta le immagini di una infanzia sospesa nella fissità della memoria, eterna come il legame tra due fratelli. Su questo palcoscenico si muove il tema della vita e della morte, presente, nell’episodio infantile (caduta dell’albero), come lancinante premonizione di un inevitabile passaggio biologico. Scrittura molto sorvegliata, che si avvale di un lessico ampio, arricchito da termini provenienti da campi specialistici, inseriti con naturalezza nel testo. (CARLO NELLO CECCARELLI)
Un accorato monologo che ripercorre gli anni dell’infanzia vissuta in periferia, in una fratellanza solidale e complice che fa da scudo a un vicinato ostile e una madre sciagurata. Un incalzare di interrogativi che tormentano il presente, a cui nessuno potrà dare riscontro. Una metafora dell’esistenza racchiusa in un tronco d’albero, dalla corteccia fino al midollo – la vita come “danza intorno al centro” – che si snoda in un efficace parallelismo tra la voce narrante e il suo doppio – la ragazza dell’albero – fino allo struggente distacco, destinato a separare definitivamente chi è cresciuto insieme. La prosa, matura e consapevole, padroneggia il lessico scientifico mettendolo al servizio di introspezioni psicologiche e toccanti riflessioni sul senso dell’esistenza. (VALERIA MICALE)
Narrazione in flashback. Una donna, che assume su di sé la voce narrante, ripercorre tratti di storia familiare al capezzale del fratello, tenuto in vita da un respiratore che l’indomani verrà spento. L’affetto che li lega, nato dalla consapevolezza di essere entrambi uno “splendido innesto” (“Sarebbe potuta andare avanti così per sempre, vero? Noi tre nella casa pesce”) non si è mai spezzato. Con grande delicatezza e una sensibilità panica, l’autrice non racconta la morte del fratello, ma la trasfigura nel ricordo di un albero del giardino, tagliato anni prima. Il linguaggio tecnico, preciso, la perizia botanica di tante descrizioni, fanno della storia una bella lettura. (ANGELA FLORI)
La felice intuizione di associare la vita vegetale di un essere umano condannato per sempre al letto per via di un incidente a quella di un albero malato destinato al taglio così come l'essere umano è destinato ad essere pietosamente spento, si dipana nell'affabulazione del narratore che conduce in prima persona il lettore sull'onda dei ricordi e delle considerazioni. Scrittura piana che si legge gradevolmente ma manca di quel guizzo personale indispensabile per catturare chi legge. (LEANDRO LUCCHETTI)
Denso, straripante di dettagli ed emozioni, scritto magistralmente. Tra l’esistenza e la fine, tra umano e vegetale, tra paura e desiderio il testo si snoda in una lettura capace di coinvolgere in maniera totalizzante. La sua scrittura è così abile da rendere i due protagonisti leggeri e pesantissimi allo stesso tempo, affrontando con coraggio scelte stilistiche che riflettono – e in qualche modo accentuano – anche quelle reali della vita. Scorrendo verso l’epilogo un nodo attanaglia lo stomaco del lettore, segno inequivocabile che l’autrice che è riuscita a centrare l’obiettivo. (FEDERICA CAPODURI)
Per anestetizzare lo strazio di un presente volutamente non scandagliato si dà il via al carosello della memoria, che ricostruisce con disincantata crudezza ombre del passato e scampoli di memoria familiare. Lampi metaforici e pennellate realistiche, in un clima di sofferta partecipazione intima, vengono rese con uno stile di elaborata eleganza e profondità, scorrevole e ricercato, mai banale. Un’opera pregevole edequilibrata sotto tutti gli aspetti. (NILLA LICCIARDO)
Maria Luisa Stomeo
Golgota
È il profumo del caffè, per precisa scelta fatto a moka e non con le moderne macchinette Nespresso, ad accompagnare la salita a quella collina, poco fuori dalla cittadina che si può identificare come Martano. Una collina che, per la presenza di tre croci a uso processione, è conosciuta con l’appellativo di gòlgota. E sono in tre, per caso o anche qui per precisa scelta, a salire alla collina nello stesso giorno. Amadi, immigrato nigeriano, Imma, mediatrice, e Michele, pregiudicato disperato. Le case e i palazzi del paese, costruiti con la pietra leccese, “una pietra porosa, vissuta, vivente, calda”, a loro modo raccontano la storia di una terra imperfetta, dove gli equilibri sono spesso affidati alla legge primitiva del più forte. Non c’è riscatto, ma solo l’accortezza di slacciare uno, due bottoni della camicetta; non c’è dignità, ma solo l’attesa del “più in là, al bisogno”; non c’è speranza, ma solo la rabbia di chi non chiede aiuto. Si muovono, i personaggi del racconto, con addosso la polvere secolare del paese, appena smossa – ma non rimossa – dalle comunicazioni informatiche del mondo; e si muovono secondo destini che paiono già assegnati e segnati. Si muovono in quel venerdì di aprile per salire al gòlgota, luogo per definizione di pena e sofferenza. Si muovono in tre, per tornare in due. (PAOLO CASADIO)
Scrittura curata, così come l’ambientazione. Finale non molto convincente: la tensione narrativa, che va nella direzione: Imma (narratrice)> Amadi> Miglietta, si scarica in modo poco efficace su un personaggio secondario, estraneo alla vicenda portante del racconto. (CARLO NELLO CECCARELLI)
Il racconto è emozionante. Scenario: un “paese salentino della provincia più a est dell’Italia”, perfettamente caratterizzato sotto diversi aspetti: geologici, botanici, culturali, antropologici. Né mancano accenni alla piaga dello sfruttamento lavorativo, al pregiudizio dell’accoglienza di migranti, al facile arrivismo e all’arroganza di chi pensa di avercela fatta nella vita. Insomma un luogo che somiglia a un qualunque paesaggio assolato e polveroso del nostro meridione. Tema: il sacrificio dell’uomo. Su un monte soprannominato Golgota, muore suicida Michele Russo. Muore di solitudine, di povertà, di disoccupazione. Muore del disinteresse degli uomini. Inversamente proporzionale al Salvatore di cui celebriamo la morte e risurrezione, nessuna rinascita possiamo attenderci per Michele. Forse, soltanto, una rinascita del nostro bellissimo Sud. La scrittrice, Maria Luisa Stomeo, cura ogni aspetto formale del racconto. (ANGELA FLORI)
La protagonista, di cui non viene indicato il nome, lavora come mediatrice culturale in una cittadina del Salento. Il racconto ne descrive una giornata apparentemente come le altre: si sveglia alla mattina, riceve la telefonata di un ricco proprietario che potrebbe assumere Ahmed, un suo assistito (razzista e porco, dice la protagonista del proprietario, ma come “mediatrice” è costretta a vestirsi in modo vagamente sexy per cercare di ottenere il posto), poi si reca con Ahmed dallo stesso Rocco Miglietta, il ricco proprietario, dal quale riesce a ottenere solo vaghe promesse. Tornando, trovano Michele Russo, un ex delinquente disperato, impiccato a un albero di fichi (l’albero a cui, secondo alcune tradizioni popolari, s’impiccò Giuda). Un racconto lineare, che descrive uno spaccato di vita contemporanea: la disperazione rancorosa verso gli extracomunitari (Michele prima d’impiccarsi si scontra con Ahmed e lo accusa di portare via il lavoro ai locali), il tentativo faticoso della protagonista di trovare un senso al proprio impegno sociale, il ricco che si è comprato il diploma, l’immigrato che cerca di barcamenarsi. La macabra sorpresa finale giunge come un taglio netto alla fine del racconto (senz’altro una scelta narrativamente valida). Buona anche la scelta stilistica di raccontare la giornata al presente con la voce e il pensiero della protagonista. (VINCENZO REZZUTI)
Un racconto interessante che, pur utilizzando una tecnica semplice, offre spunti di riflessione sul tema della solitudine e della sofferenza personale, sulla capacità personale di affrontare problemi sociali che caratterizzano i nostri giorni. (DANIELA PIANETTI)
Sapientemente scritta, la storia di Imma racchiude in sé tante, tantissime questioni – morali, etiche, sociali – che la rendono densa di significati e che lasciano nel lettore, alla fine, anche un forte senso d’impotenza. La storia di disuguaglianza di Amadi e le battaglie giornaliere che Imma porta avanti riguardano tutti noi, così come ci toccano da vicino i problemi di Rocco, Giovannino e Michele; che è stato solo il primo a cedere, in quel triste venerdì di aprile. (FEDERICA CAPODURI)
Un venerdì di passione si conclude tragicamente per un povero cristo, emblema di una terra tormentata, povera di risorse e dominata dalla disuguaglianza sociale e dalla protervia dei potenti. Scegliere di restare nel proprio paese rappresenta una sfida e allo stesso tempo una sconfitta: l’umiliazione di un’eterna via crucis. Il racconto, pur nella drammaticità del finale e nel pessimismo della riflessione, ricerca un tono scanzonato e si disperde in divagazioni superflue, strizzando l’occhio alle fiction televisive. (NILLA LICCIARDO)
Beniamino Rosa
Il viaggio in Paradiso
La funivia del Rosareccio copriva i due chilometri che separavano la località Pecetto dai Piani Alti – pendici del Pizzo Bianco – con due tesate interrotte da un unico pilone. Quando, il 10 marzo 1975, una valanga si portò via il pilone, l’impianto venne chiuso per sempre. Restano, abbandonate, le due stazioni di monte e di valle. In tanto mondo superstite, come scrive l’autore “storto e diritto”, viaggia e vive (vive?) Andrea – ma il nome poco importa e si potrebbe anche omettere – sulla cabina numero due, tra le nuvole e le nebbie di questa favola surreale che, per ritmo, sorprese lessicali, risvolti poetici e una sensazione complessiva di sigillo conclusivo, di fili tirati, pare appartenere a un lavoro assai più ampio e articolato. Onirismi felliniani della voce narrante, ossimori: il linguaggio è giocato con ricchezza, estrosità, e certe conclusioni – una per tutte: “Le cose sono sempre le stesse” – ricordano altre penne, per far due nomi un Permunian o un Calvino, e forse un terzo ed è Cavazzoni. L’ascesa al monte ha poi una discesa, e ci si domanda se quell’ascesa sia morte e la discesa resurrezione; e ci sono galline e patate a ricordare il mondo piccolo, il mondo storto che certo non vuole raddrizzarsi ma, nelle vestigia di un passato sciistico, coglie e accompagna gli equilibri necessari alla vita, e anche alla morte. (PAOLO CASADIO)
Una voce affabulatoria che racconta: è la voce un po' sgangherata di un montanaro, il quale elabora la sua narrazione su un ritmo dialettale vagamente sgrammaticato che suscita simpatia. In una Macugnaga che ormai ha dovuto rinunciare ai fasti del boom sciatorio causa disastro ambientale, Andrea cerca di sopravvivere utilizzando i resti del tempo che fu. Così una cabina della dismessa funivia diventa pollaio e magazzino per le patate mentre la vecchia casa, in cui custodisce i ricordi della nonna, vola su una nuvola fino alla stazione d'arrivo della funivia lassù sulla montagna. Là compare l'archeologo della funivia, quello che prende nota dell'altrove e tiene in spalla il traino della sciovia che può essere riutilizzato per far giocare i bambini. Un viaggio tra sogno e realtà con tocco surreale mentre la vecchia casa, tornata a valle, può anche essere
utilizzata come un mini bed&breakfast per gli escursionisti che ancora non hanno perso il piacere di camminare in montagna. E perché non sognare che un giorno la funivia possa ridiventare il veicolo che trasporta verso l'alto della cima dove splende la luce e forse, chissà, subito oltre c'è il paradiso? Bel racconto, ironico e malinconico, distopico quel tanto che basta e che intriga, sostenuto da un linguaggio che si sforza di essere originale e dopotutto ci riesce. (LEANDRO LUCCHETTI)
Un racconto lunare dove sogno e realtà si confondono. Il candido Andrea ricorda il protagonista della “Voce della Luna” e si ricollega a una lunghissima tradizione narrativa che ha come capostipite Ariosto. Ottimamente scritto in un linguaggio sapientemente povero ma pieno di poesia, questo brevissimo racconto merita di essere letto e riletto. (VINCENCO REZZUTI)
Apprezzabile il tentativo di riprodurre il linguaggio parlato, con gli anacoluti e le improprietà sintattiche. Bella e a tratti poetica l’ambientazione. La storia però è confusa; difficile seguirne l’intreccio. (ANGELA FLORI)
Ardua prova per il lettore. Verrebbe da pensare a un flusso di pensiero, o alla discesa nella mente di un “semplice” del Faulkner de “L’urlo e il furore”. Qui, tuttavia, la tecnica appare assai meno convincente e chi legge rischia di incespicare in costruzioni che, se talora sembrano strutturali all’idioletto del protagonista della storia, a volte appaiono meno facilmente distinguibili da refusi. (CARLO NELLO CECCARELLI)
Un racconto surreale, un personaggio stralunato che potrebbe degnamente figurare accanto al pastore Serafino di Pietro Germi o al Barone Rampante di Calvino. Il montanaro Andrea, allevatore di galline nella cabina di una funivia dismessa, si risveglia e scopre che la sua casa è stata trasportata su una nuvola. La simbolica ascesa condurrà il protagonista a riflettere su se stesso e sul senso della vita, in un poetico snodarsi tra memoria e visione che guarda al passato ma si apre alla speranza. Un’idea originale e ben sviluppata dal punto di vista narrativo. Svariate dissonanze sintattiche, congrue col personaggio che si vuole raffigurare, rendono, tuttavia, difficoltosa la comprensione del testo, minandone la scioltezza. (VALERIA MICALE)
Un linguaggio perfettamente modellato sul personaggio, un animo semplice che mescola elementi ben riconoscibili di realtà a scivolamenti nell'onirico. L'intreccio è coerente; soltanto il finale mi è sembrato affrettato, troppo semplicistico e "buonista". (ROSELLA BOTTALLO)
Il testo corre leggero nella lettura, con uno stile narrante preciso e quasi distante, come il protagonista della storia, Andrea. Il viaggio che intraprende svela sogni e incubi, dati da quel genius loci montano in cui tutto s’immerge. (FEDERICA CAPODURI)
Sezione E: Poesia
Barbara Grubissa
Eros coniugale
Come un brano di uno spettacolo teatrale due monologhi in distici di versi raccontano un matrimonio; le due voci, la femminile e la maschile, monologano mettendo in scena l’impossibilità dell’incontro. La solennità delle anafore e dei versi collide felicemente con la concretezza delle immagini, il ritmo cadenzato restituisce la sola unità possibile. (CAROLA SUSANI)
Testo appassionato, fiume in piena che svolta e risvolta, talora tornando sui suoi passi (qua e là ripetendosi. Voce femminile : verso 3 "diritto", verso 5 "diritto" ; verso 25 "pubblico diniego", verso 28 "utile pubblico", verso 31 "diniegare". Voce maschile: verso 5 "diga, verso 19 "diga"): ora filo d'acqua rapido e tagliente, ora flusso impetuoso. Paiono discorsi separati, i due monologhi, non si direbbero parti della stessa coppia, metà della stessa mela; non condividono accuse e scuse, nessuno dei due si cura di raccogliere gli altrui rimproveri. Comune, viceversa, è il linguaggio: un analogo registro, lo stesso respiro. Interessante riflessione sull'infedeltà e ancor più sulla fedeltà in amore, forte di immagini nitide e versi efficaci, bastanti a se stessi, godibili anche senza l'insieme. (MARCO MAFFEI)
Una rappresentazione a specchio dell'amore coniugale che, seppur influenzata maggiormente dal solo punto di vista femminile, mette a nudo senza alcuna indecisione tanti aspetti taciuti, ma non sarebbe sbagliato dire rimossi, dell'amore siglato dal matrimonio. Gabbia sociale nelle parole della donna, maggiormente idealizzato attorno alla figura della donna amata nelle parole dell'uomo, cosa che ci fa sospettare una riflessione ragionata dell'autrice attorno a un caso verosimile (inventato o meno non fa alcuna differenza) di rapporto matrimoniale a partire dal quale Grubissa riesce bene a descrivere buona parte di tutti quegli impacci e quegli interrogativi con cui entrambi gli attori di un rapporto matrimoniale sono costretti a fare i conti quotidianamente. La scelta di versi ipermetri scanditi dalle anafore risulta abbastanza appropriata, dando ad entrambi i componimenti un tono di confessione la cui solennità però non disturba, essendo mitigata dalla scelta di immagini nette e concrete, quindi mai retoriche, e da una buona fluidità dei suoni. (FERNANDO DELLA POSTA)
Due monologhi – quello di lui e quello di lei – disegnano un ritratto di coppia: entrambi implacabilmente scanditi in distici di versi lunghi, ricchi di iterazioni, segnati da un linguaggio che non di rado attinge a lessici specialistici. Due solitudini che sembrano parlarsi senza davvero capirsi. (SERGIO PASQUANDREA)
Due monologhi in distici sciolti che vorrebbero farsi dialogo tra due potenziali amanti lacerati da egoistici io che non possono farsi noi. L'immaturo maschile possiede il nuovo femminile come specchio e oggetto di gusto finché compatibile col suo vecchio che più vecchio non si può. L'utero originario non aiuta il nuovo e si porta nella tomba il suo stesso frutto perverso. L'alba del fallimento, del noi e dell'io, più chiara ed attesa che mai, è pennellata da un afflato poetico crudo ed eloquente, doloroso e avvincente, decisamente meritorio. (LUIGI IANZANO)
Il componimento vanta un ritmo cadenzato, incessante, che coinvolge il lettore e lo trascina fino alla fine. La ritmica aiuta a entrare nella dinamica del dibattito a due voci, che rappresenta una struttura poetica originale. (VALENTINA COTTINI)
Lavoro importante e di ampio respiro con versi delicati e spietati che sanno regalare un ritratto approfondito del tema trattato. (DAVIDE TOFFOLI)
Eleonora Villa
Marzo, la fine.
Poche righe dense di una storia che si racconta attraverso l'apparente semplicità di oggetti e situazioni quotidiane: lo scrocchio di un legno spezzato o di una vocale, un grido, forse, reso ancora più dolente da quei respiri storti. E poi l'immagine più bella: il nuovo che bussa alla porta non per una buona novella ma solo per confermare la fine di un ladrocinio di anima, quel 'mi ami solo a resti': la mancia che si lascia a qualcuno che ci ha fornito (mi si perdoni l'immagine un po' volgare) un buon servizio. Brava. (ELVIRA MANCO)
Sette versi appena, oltre al titolo, per un testo criptico, accuratamente asciugato da ogni impulso di passione, che concede al lettore solo allusioni. Poesia misteriosa, malinconica, ispirata. Non sicura di essere compresa, l'autrice, mentre scolpisce la sua delusione d'amore, la sua misurata disperazione. (MARCO MAFFEI)
Un'unica frase, distesa in sette versi, per arrivare alla conclusione finale: “mi ami solo a resti”. L'amara conclusione di un rapporto amoroso, allusa più che dichiarata. (SERGIO PASQUANDREA)
Il componimento si apre con un’immagine incisiva, capace di attivare lo sguardo del lettore che è chiamato a percorrere i versi in un viaggio che non è spaziale, ma temporale. La chiusa – di forte impatto emotivo – mette un punto inesorabile: commovente. (VALENTINA COTTINI)
La poesia obbedisce a un giro ritmico e monostrofico convincente; cresce nel finale. (GIUSEPPE FEOLA)
Testo con versi spezzati ed intensi, che sprigionano energia ed empatia. (DAVIDE TOFFOLI)
Roberto Morpurgo
Non sapessi
Testo sfuggente e inafferrabile che anziché svelarsi si fa ancor più enigmatico nel finale. È però ricco di espressioni particolarmente felici: "... i calvari diserbati dal dorso leggero ... le vie che smina la lava dal profondo ... quel suolo mite ai venti". L'autore, nel suo allontanarsi ("...fuggirei...") trascina con sé il lettore, in alto ("...salirei ... nembo ... venti ... alisei ..."), per osservare, più giù, quel suolo offeso, mite e esausto, cui indissolubilmente appartiene. (MARCO MAFFEI)
Il componimento, a prevalenza di endecasillabi, ha un ritmo coinvolgente e scandito. La scelta lessicale aulica chiama l’attenzione del lettore e lo spinge a una profonda riflessione, senza rendere troppo artificioso il versificare. (VALENTINA COTTINI)
Lessico un po' retro e versi scanditi a delineare una poesia ricercata e ben costruita. (DAVIDE TOFFOLI)