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La recensione al romanzo inedito vincitore


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Il giurato Vincenzo Rezzuti recensisce il romanzo "Zero Virgola" di Luigia Bencivenga, vincitore nella sezione inediti.

06/02/2022 | 12:53

La motivazione del giurato Vincenzo Rezzuti al romanzo inedito vincitore della IX edizione del Premio Zeno.

Luigia Bencivenga, Zero virgola

Garryowen, cane che compie buone azioni il cui nome ricorda il cagnaccio del Cittadino di Joyce, salva da morte certa il professor Sauro Consilia, aggredito da altri cani mentre, sul colle “dei guardoni”, spiava una coppia di amanti. Il suo padrone è Mimì Nasone, detto Figlio delle Stelle, tossico moderato e bevitore di rum e, si scoprirà, figlio dello stesso Sauro. La guardia giurata richiamata da Garryowen, credendo che sia lui il responsabile del massacro del professore, lo uccide. Da qui poi inizia, con una festa a casa del sindaco, una storia un po’ stralunata e un po’ corale, in generale molto godibile, che trascina con sé il lettore grazie a una prosa dai toni jazz. Ambientato ad Ilias (non il borgo albanese sulla riva dello Ionio, ma una città di fantasia del sud Italia), il romanzo è un pirotecnico susseguirsi di microstorie con alcune caratteristiche in comune: il desiderio nelle sue varie forme, represso, morboso o sfrontato, i tradimenti, l’ipocrisia dei ricchi e dei preti, i cani, la morte arrecata a sé o ad altri e in particolare ai cani stessi. Si torna poi a Mimì Nasone, alla sua madre avvelenatrice di cani, al suo Amico Immaginario, agli spacciatori che Mimì frequenta, rappresentazione di un mondo tra il fantastico e il reale tutt’altro che scontato. Mimì fa il trasportatore di salme ed è un fan dei Kiss, dei quali imita l’aspetto truccandosi da “Figlio delle stelle”, con riferimento allo “Star Child” Paul Stanley. C’è poi Sauro Consilia, la vittima iniziale dei cani, direttore del carcere e guardone a tempo perso. Ha inventato un metodo di riabilitazione per i detenuti che consiste nel leggere Dostoevski (al quale è stato intitolato il carcere) e la Bibbia, ascoltare Mahler e fumare marijuana. Al metodo viene sottoposto Dante De Rosa, pedofilo e assassino di bambini. E poi il Vecchio, che dopo una giovinezza tossica diventa ricco imprenditore di cibo per cani, ma poi fugge dal suo successo per nascondersi nel paradiso in terra di Cala Renella, coi suoi amici e tre prostitute. E così via. L’autrice scrive senza incertezze, un po’ alla Mattia Torre, osando a volte oltre il lecito, non preoccupandosi troppo di costruire una trama narrativa unitaria, ma non perdendo mai il filo del discorso. Un lettore che sia alla ricerca di qualcosa di nuovo nel panorama narrativo si troverà facilmente a suo agio nella grottesca rappresentazione di una sensualità onnipresente declinata in tutte le forme possibili, comprese quelle zoofile. E qui occorre sottolineare la presenza dei cani. Onnipresenti, vezzeggiati e torturati, spesso uccisi, altre volte compianti, sono essi stessi l’incarnazione di un desiderio originario e privo di razionalizzazioni che l’umanità sottomette con l’illusione di curare così le proprie carenze affettive. I cani sono il complemento necessario della popolazione di Ilias, raccontata sia nella sua componente alto-borghese che in quella periferica e tossica, con centinaia di microstorie tra il balordo e il fin troppo vero, rappresentando grottescamente i mali del meridione e non solo, mali che dipendono, sembra dire l’autrice, più che dalla miseria, dall’ipocrisia e dall’ignavia dei ricchi e dei potenti. Non esclusa la Chiesa, ai cui rappresentanti non risparmia una satira feroce forse meritata più in passato che adesso. La sensualità è presente in ogni pagina di un romanzo che, nonostante le apparenze, è profondamente legato al meridione e alla rappresentazione grottesca degli aspetti più terragni della sua gente. Ma è presente anche la morte, a cominciare da quella del subito mitico Garryowen, e Mimì Nasone ne è in fondo un sacerdote, dato il mestiere e l’abbigliamento rock funereo. Sesso (più che amore), morte, malattia e superstiziosa devozione sono i temi che riallacciano questo nuovissimo romanzo alla narrativa meridionale in particolare partenopea (sembra persino di sentire in alcune pagine i lontani echi di La Capria, Marotta e, per quel che riguarda i dialoghi, del teatro di Eduardo).  L’autrice usa diversi registri narrativi con perizia e se c’è qualche incertezza il lettore non la nota, sommerso da tanta e feroce fantasia. Scappa pure qualche risata spontanea, e non è poco. 

Leggi tutte le motivazioni alle opere finaliste di Zeno 2021.

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