Premio Letterario Zeno - VIII Edizione

Vince il Premio Zeno 2020, sezione romanzi editi, Marco Scarlatti con Giovani come la notte (MdS), perché con un linguaggio secco, rapido e perfettamente aderente ai suoi personaggi costruisce una storia corale che è il ritratto desolato, allucinato e sorprendente di una stagione, quella dell'adolescenza, colma di rancore, solitudine e violenza. (ANDREA TARABBIA)

Livia Ussari, la più bella studentessa del liceo, per vendetta viene rinchiusa in una baracca e sottoposta a stupro di gruppo. Tutti i violentatori indossano una maschera di cuoio con una cerniera lampo sulla bocca per non essere riconosciuti, poiché sono suoi compagni di scuola. Questa è la storia narrata nelle pagine del romanzo, una narrazione confinata in una notte ferragostana, in una Roma afosa e deserta. Una storia pulp, dura, secca, tagliente, cruda come poche, che avanza in un malessere esistenziale a forza di autentici pugni nello stomaco. Le atmosfere sono oscure, spesso claustrofobiche, quasi da notte medioevale. Marco Scarlatti racconta con sobrietà e prosa avvincente, soppesando ogni aggettivo, creando dialoghi di grande efficacia, centellinando la tensione narrativa in un crescendo sapientemente dosato nei ritmi e nei tempi. Costruzioni psicologiche forti, minuziose, dei personaggi e della loro coralità, non essendoci un vero e proprio protagonista: ciascun ragazzo nella lunga notte è solo con la propria coscienza – o incoscienza - e deve decidere. Deve crescere, diventare adulto, superare le instabilità comportamentali, le povertà affettive, gli abbandoni, le debolezze connesse all’età, e questo significherà scegliere un ruolo, definire un proprio ipotetico futuro. L’esito non sarà identico per tutti. Qualcuno resterà in bilico, come accade nella vita reale. (PAOLO CASADIO)

Il romanzo Giovani come la notte si presenta come una narrazione fluida, incalzante, che non appesantisce mai il lettore pur facendo ricorso a un lessico ricco, e talvolta ad accostamenti poetici. La scrittura di Marco Scarlatti ha il grande pregio di dimostrarci come uno stile solido ed elaborato possa mantenersi fresco e moderno senza scadere in ampollosi sfoggi di erudizione, intrecciandosi armoniosamente con neologismi giovanili e con l’immediatezza spiazzante di alcuni segmenti della storia. L’autore ci racconta una vicenda di giovani, di crescita e di violenza, usando immagini vivide, metafore efficaci e atmosfere coinvolgenti. Un’opera dove tutto è corpo, tutto è tangibile, un romanzo che ti fa vivere da vicino le esperienze ruvide dei protagonisti. Lo spazio dedicato all’interiorità dei personaggi e quello incentrato invece sulla pura azione si sovrappongono in un equilibrio che convince e appassiona. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Libro potente e polifonico, nelle voci, nelle storie e nei personaggi, che riesce a tenere vivissime attenzione e curiosità fino alla fine del testo. Si parte distanti per approdare a qualcosa che unisce e che tiene saggiamente insieme il tutto. (DAVIDE TOFFOLI)

Il romanzo si sviluppa su due piani temporali e con diverse caratteristiche. La parte storica segue le vicissitudini di quattro personaggi – Ordigno, Annibale, Esther, Saverio – dipanandosi dal 1914 dapprima in un centro minerario del sud della Toscana per poi spostarsi verso la Francia e concludersi in Spagna, durante la guerra civile. Le vicende di Fausto, nipote di Saverio, si svolgono ai giorni nostri, a cavallo del cambio di secolo. Densa, densissima è la narrazione storica. Contesti ricostruiti con inesausto lavoro di ricerca e dovizia (forse eccessiva) di particolari permettono di partecipare all’intreccio dei quattro protagonisti, affrontando tematiche dure come le rivolte operaie contro lo sfruttamento padronale, le lotte per rivendicare i propri diritti e migliori condizioni di vita. Nel complesso quadro sociale s’affaccia il fascismo e la sua cruenta affermazione. Gli equilibri – se equilibri si potevano definire – saltano sotto i colpi della violenza e dell’olio di ricino, costringendo ad azioni e reazioni altrettanto violente. Dopo alterne peripezie, la clandestinità e l’esilio, i quattro si ritroveranno volontari nella guerra di Spagna. Personale e intima, quasi dolorosa, la narrazione attuale, dettata dall’esistenza frustante di Fausto. La precarietà lavorativa ne annulla l’energia, la capacità di reazione nei confronti della progressiva erosione della propria dignità. Le due narrazioni proseguono parallele, guidate da una scrittura ricchissima e attenta ai risvolti psicologici dei personaggi, fino all’inevitabile confluire finale. Un romanzo sulla forza della memoria, della propria identità e della coerenza etica vissuta come appartenenza a una comunità, a un ideale di uguaglianza e giustizia. Il raffronto tra l’incertezza, l’insicurezza dell’oggi e il passato determinato da scelte (difficili) a tutto campo accompagna il lettore, pagina dopo pagina, offrendo continui spunti di riflessione: “Era una di quelle decisioni per le quali non si sa mai valutare bene tutto, semplicemente perché tutto non è valutabile”. Un romanzo splendido, guidato da una scrittura dettagliata e rigorosa. (PAOLO CASADIO)

Un romanzo corale che segue parallelamente due linee temporali: da un lato una narrazione da romanzo storico spiccatamente realista, ma sempre ricca di introspezione; dall’altro una vicenda ambientata in tempi a noi più vicini che tende spesso al flusso di coscienza. I due percorsi sono legati da quella che si rivela essere una saga familiare, un filo che dal secondo decennio del Novecento arriva fino ai giorni nostri. Una grande storia di ideali, lotte e diritti diviene una piccola storia di rassegnazione: dalla resistenza alla sopravvivenza. Nel pessimismo che anima l’opera, le sfide, i tumulti e le conquiste rischiano di trasformarsi in «lievi impronte su questa Terra, presto soffiate via». I frequenti riferimenti alla cultura, all’arte e ai grandi rivolgimenti storici incontrano una realtà quotidiana fatta di amarezza, squallore e aspra normalità. Se lo stile indugia non di rado in una certa sovrabbondanza in cui capita di smarrirsi, e a volte si avverte una mancanza di pathos proprio laddove non ci si aspetterebbe, non si può non riconoscere che l’accuratezza con cui l’autore descrive le opere d’arte e la vita della classe operaia nel Novecento sia pari alla fedeltà con cui rappresenta l’animo umano, i suoi moti e le sue reazioni. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Il romanzo è un prezioso sguardo dall'interno su un mondo del lavoro di inizio Novecento, con uomini scolpiti dal mondo che li circonda. La vera orza è la splendida coralità dei protagonisti, tutti forgiati dalla storia, non solo nazionale, in cui sono immersi. (DAVIDE TOFFOLI)

Le motivazioni della giuria popolare:

Il romanzo racconta le storie di Saverio, vissuto nella prima metà del ventesimo secolo e di Fausto, che invece viene raccontato attraverso le sue vicende che comprendono un arco temporale tra il 1998 e il 2001. Il confronto generazionale è impietoso ed è il nucleo portante di tutta la storia seppur non esplicitato in maniera diretta. I personaggi sono approfonditi e caratterizzati sia intimamente che nel loro contesto. Il linguaggio è curato, ricercato senza essere lezioso. La lettura è molto coinvolgente. (LUCIA ZAGO)

Il romanzo si svolge su due livelli che l'autore sapientemente sa far confluire. Le scene e i personaggi sono descritti con dovizia di particolari e anche l'ambientazione storica è di effetto. L'autore riesce a fare avvicinare il lettore al mondo dell'arte tramite Fausto, un giovane che affoga le sue serate in compagnia di due balordi tra alcol e droga e che troverà la redenzione in una scoperta sensazionale... (LILIANA CAPONE)

Questo romanzo – dovrei dire a-romanzo – visionario, onirico, ironico, grancassone e fantastico, non si può che definire – per stare al gioco dell’Autore – a/trattino/tipico. Si svolge nell’arco di quasi settecento facciate percorse ora al trotto, ora al galoppo, con un stile e intrecci di pura e personalissima anarchia. Invenzioni linguistiche già preannunciate in quel Tintobrassetti, cognome e nome di chiara identificazione, e personaggi che già in presentazione vivono di luce propria: “Don Cesare, parroco presso la diocesi di Martano, è solito al termine delle confessioni di Liliana intrattenersi in confessionale per concedersi intimi sfoghi col proprio Datore di Lavoro: di questo nel romanzo non si troverà cenno”. Oppure: “Liliana Bellosguardo, locataria e compagna del maestro durante il periodo Martanese, miss Campania plurimancata”. Caparesi costruisce, con la pazienza e l’abilità di un giocoliere tessitore, una mappa territoriale e temporale futura entro cui muove stralunati personaggi come Occhio feuzzo, il ferroviere dal volto scaleno. Non è un giallo anche se c’è il morto e non è fantascienza anche se c’è la biogenetica capace di clonare esistenze; vi sono passi esilaranti come il discorso che Occhio feuzzo improvvisa, a mo’ di rivincita, per la cerimonia funebre della moglie defunta, oppure la scena – che non svelo – in cui l’appartenenza regionale diventa l’unica possibile e reiterata chiave di spiegazione dei comportamenti: “…come se fosse indeciso (è veneto)”. A volte il rimando a registri di scuola campaniliana è sottile e percepibile, così come certe teatralità che diventano tetralità, giochi di andate e ritorni, calcio e politica, vita e morte, sesso e burocrazia. Vita e morte, soprattutto. Perché in fondo di questo, per il tramite dei suoi personaggi, rappresenta e parla il romanzo, che va visto sempre, nei continui accenni, riprese e rimandi alla realtà, con il filtro, necessario e salvifico, del proprio consapevole destino: “A proposito del nome Anna. In ogni palindromo c’è tipo un destino, ‘na simmetria, un pacioliano Ordine Naturale delle Cose.” (Nota al redattore: Avrà notato l’Autore come abbia accuratamente evitato l’aggettivo “distopico”) (PAOLO CASADIO)

Al primo sguardo ti chiedi se questa Abiografia sia davvero un romanzo. Già il titolo ti fa sbattere le palpebre più volte, ma è quando ti avventuri nel primo capitolo che capisci di aver varcato la soglia di un altro mondo. E così ti ritrovi naufragato in un mare di parentesi, puntini sospensivi che non sai dove vorrebbero condurti, termini dialettali, parolacce, onomatopee. Subito ti chiedi se hai davanti uno sperimentalismo geniale o un’esplosione di follia. Le isole del testo dove si ritrova una scrittura più convenzionale, insieme ai presunti inserti accademici, rivelano che la finta anarchia che pervade il libro è il frutto di una scelta stilistica dietro cui sembra celarsi un’insofferenza alle regole. Tutto nasce da una voglia di novità, uno stimolo creativo in un mondo che teme proprio l’estinzione della creatività, non a caso uno dei temi del romanzo. Storie di individui apparentemente insignificanti finiscono per cambiare il destino del pianeta. Forse. Perché nulla è sicuro in questa intricata vicenda che fa balzare il lettore da Andronico a Martano, da Amatrice a Greccio, da un presente pazzo a un futuro inquietante. Un libro all’insegna della contraddizione, ma una contraddizione che «più che il sapore dell’ossimoro, ha quello dell’ironia che migliora l’esistenza». (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Un'opera con il pregio del peso specifico di ogni singola parola. Un libro voluminoso che tratteggia ed evoca storie, giocando mirabilmente su situazioni, immagini e suoni. Tra noir, giallo e distopia, un corposo sfizio tutto da leggere. (DAVIDE TOFFOLI)

Le motivazioni della giuria popolare:

Il romanzo di Caparesi è un progetto complesso, pieno di personaggi, di avventure, fortemente connotato attraverso l’ambiente, le citazioni, il linguaggio. Non è di facile lettura, tuttavia ci si affeziona ai personaggi che vengono raccontati attraverso i punti di vista più disparati. Romanzo ricco, opulento, divertente e allo stesso tempo complesso. (LUCIA ZAGO)

Storia molto articolata di cui ho apprezzato la descrizione minuziosa ed il carattere dei vari personaggi coinvolti, una lettura non facile, ma che riesce comunque a regalare pagine coinvolgenti e piacevoli. (MARIO ALIPRANDI)

Vince il Premio Zeno 2020, sezione romanzi inediti, Michele Frisia con Avere un piano, perché è storia ben congegnata, dal ritmo serrato e incalzante, in grado di avvincere il lettore. (ANDREA TARABBIA)

Avere un piano è un romanzo che afferra il lettore con prepotenza e lo tiene stretto alle pagine grazie allo stile agile, al suo ritmo immediato e ai misteri della trama. I due protagonisti, diversi e opposti, scoprono gradualmente la loro insospettabile affinità mettendo in dubbio le loro idee e i loro valori. Quello dei temi scolastici che spuntano tra un capitolo e l’altro è un espediente letterario ben riuscito che fa emergere lo sviluppo del personaggio di Orso. L’uso irregolare dei tempi verbale mi disorienta: si tratta di incoerenza o di creatività? Alcuni punti richiedono a gran voce l’intervento della revisione, come la grafia del dialetto napoletano. La grande forza del romanzo sta nell’efficacia cinematografica della storia, una vicenda appassionante narrata dall’autore con uno spirito da regista e sceneggiatore. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Avere un piano è un romanzo che ha tanti piani e, in un modo o nell’altro, riesce a portarli tutti a buon fine. Inizia come (forse) un thriller ma poi diventa anche qualcos’altro. Il suo tessuto complessivo mescola infatti frammenti di romanzo di formazione, di romanzo a incastro a enigma combinatorio, di saggio scientifico e filosofico… Ogni capitolo e, a volte, ogni pagina incuriosisce e spiazza (o spiazza e incuriosisce) il lettore e questo, insieme a uno stile di scrittura piano e sincopato, contribuisce a rendere la lettura piacevole e inarrestabile. Nonostante questa vivacità e varietà, il romanzo, come anticipato, riesce a tenere insieme i suoi tanti livelli e intrecciare i vari filoni narrativi in una storia che sia una (e che però, ed è uno dei tratti più interessanti del romanzo, lascia spesso intravedere come potrebbe essere continuamente andata in maniera diversa). E così, nel finale, seguendo la risposta di Douglas Adams alla vita, all’universo e tutto quanto, l’autore si può anche concedere il gusto di un happy ending classico che più classico non si può, senza per questo suonare banale. (RENATO NICASSIO)

Le motivazioni della giuria popolare:

Michele Frisia scrive bene di ciò che sa e dimostra di sapere bene ciò che scrive. Padroneggia i fatti e la forma con la giusta dose di realismo e concretezza senza svilire la narrazione in mera cronaca. L'autore ci esonera da quello che Wilde chiamava “realismo volgare” e lo fa senza troppe metafore, senza eccessive suggestioni ma semplicemente con una buona scrittura, con un intreccio di eventi ben orchestrato. (CECILE TOMBOLINI)

Il lungo contagio è un susseguirsi di ricordi, pensieri e frammenti di una storia che non è mai realmente narrata, ma soltanto evocata. Al centro è posto un passato che si trasforma in un “presente fatto di spostamenti sempre più lenti”, e che è tratteggiato attraverso una scrittura che crede nel potere evocativo degli oggetti e dei gesti quotidiani. Da un lato c’è il senso vago di un’atmosfera poetica e di un mondo sfumato nel ricordo, dall’altro la grande concretezza delle immagini descritte. Dopo aver seguito il suo percorso fatto di memorie e sentimenti, il romanzo ti lascia alla fine “lo spaesamento di un certo abbandono”. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Il lungo contagio è un romanzo che costruisce per frammenti – di tempo e di personaggi – la storia di una famiglia. La lingua è molto curata, ricca di immagini e metafore. Tuttavia, tale ‘letterarietà’ e ‘poeticità’ del testo, pressoché onnipresente in ogni frase, rischia di suscitare un’impressione di eccessiva artificiosità che ostacola la lettura, oltre a rallentare un ritmo narrativo già di per sé non tanto veloce. (RENATO NICASSIO)

Le motivazioni della giuria popolare:

Quasi una poesia in prosa. L’autrice, come in un lungo peregrinare onirico, ci regala immagini suggestive ed evocative, come diapositive che si susseguono una dopo l’altra, qualche volta confuse o accavallate, ma che ci raccontano la storia di questa famiglia colpita da storie simili e differenti da tutte le altre famiglie della storia d’Italia del secondo dopoguerra. (LUCIA ZAGO)

L’autore di questo romanzo sembra aver rifiutato di assaggiare il pane quotidiano degli scrittori: si mostra immune all’orrore per la ripetizione, estraneo alla continua ricerca di sinonimi, impavido nell’accogliere la rima nella prosa. Il risultato è una scrittura coraggiosa, ma a tratti indulgente al superfluo. Si potrebbe pensare che l’autore abbia seguito la logica del compositore piuttosto che quella del romanziere: le parole che si ripetono, le frasi che si fanno eco a vicenda e i concetti ribaditi più volte ricordano un’opera musicale, con i suoi cori e i suoi ritornelli, come sembra suggerire il tema della musica, centrale nella trama. A prescindere da tutto ciò, il lettore rimane colpito dal messaggio profondo della storia, dal linguaggio pregevole e dalle descrizioni pienamente radicate nel “mondo mostruoso e affascinante nel quale viviamo”. Una storia di sottomissione, soggezione, perversione, e di un desiderio di prevalere che si scontra con i limiti imposti dalla vita. Un’opera in cui l’inconsueto parla a tutti noi e diviene universale. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Il passaggio stretto è un romanzo dotato di un buon ritmo narrativo e scritto in una lingua corretta e coerente. La storia, un po’ thriller un po’ monologo psicologico à la Thomas Bernhard, segue le vicende e le confessioni di tre personaggi (il narratore, un suo vecchio amico, e una giovane donna che avvince e seduce entrambi) lungo un percorso crescente di perversione e violenza. Il complessivo buon ritmo narrativo, però, incoccia qui e là – soprattutto dalla metà del romanzo in poi– in una serie di evitabili ripetizioni di descrizioni e pensieri. Ciò non inficia troppo il piacere della lettura che prosegue spedito sino alla fine. L’autore dovrebbe però approfondire meglio la costruzione delle scelte e delle azioni dei protagonisti che sembrano dettate da motivi oscuri (il che può starci nell’atmosfera del romanzo) ma che, essendo tanto gravi e irredimibili, necessiterebbero forse di maggiore giustificazione e spiegazione. (RENATO NICASSIO)

Vince il Premio Zeno 2020, sezione racconti lunghi, Leandro Lucchetti con Il negazionista, perché ha composto un racconto su un tema delicato e controverso lavorando con sapienza e ottimo piglio narrativo su fonti storiche e documenti. (ANDREA TARABBIA)

Il titolo di questo racconto farebbe pensare, di primo acchito, a uno di quei personaggi – sempre più numerosi (in particolare in questo periodo storico) – che, senza alcun avvallo scientifico o nozionistico, destrutturano e negano teorie oggettive e consolidate. Al contrario, il negazionista di questa vicenda, personaggio/voce narrante, argomenta le sue tesi in una maniera oltremodo prolissa e precisa, citando documenti, dettagliando fatti e personaggi storici, e accompagna per mano il lettore utilizzando un linguaggio lineare e coerente, sino alla conclusione, ovvero sino alla sua dipartita. Un racconto post-mortem, quindi, enunciato sin dall’incipit (Il giorno prima del giorno in cui sono morto), ovvero un paradosso che snatura ogni regola narrativa (può un morto raccontare i suoi ultimi giorni?), ma già utilizzato da altri autori in maniera funzionale (vedasi ad esempio “Amabili resti” di Alice Sebold tra i casi letterari più famosi degli ultimi anni) e che, anziché allontanarci o estraniarci dal testo, ci fa sentire più vicini al protagonista, compartecipi delle sue tesi, del suo bisogno di perpetuare la memoria. Memoria e testimonianza, e quindi eredità culturale, che – forse è questo il significato ultimo del racconto – rischiano di andare perduti una volta che i protagonisti della storia, anzi Storia (con la S maiuscola), lasceranno uno dopo l’altro questo mondo. (PLACIDO DI STEFANO)

Una riflessione storica e politica ‒ nel senso nobile che questo termine ancora possiede ‒ presentata nella veste di un racconto. L’anziano protagonista muove i suoi ultimi passi in una società all’ombra di una Storia che non può più essere conosciuta davvero, confrontandosi con il doloroso tema delle foibe. L’autore ci dimostra come il termine “negazionista”, che oggi suona più che mai familiare anche in contesti differenti, possa essere talvolta abusato e sfruttato per isolare chi in realtà non si oppone affatto alla verità o alla conoscenza oggettiva. La voce narrante, è bene sottolineare, non nega i massacri delle foibe nel loro complesso, ma lotta per far luce su una singola realtà storica, quella della foiba di Basovizza e della sua elevazione a monumento nazionale. Al di là del tema politico, la narrazione offre uno squarcio malinconico di una vita ormai dimessa che si spegne, ma che non si arrende. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Una voce lucida e limpida attraversa una dolorosa, intricata vicenda. Un “racconto – saggio” dove la “Storia” si mescola alla “storia”. (CARLO NELLO CECCARELLI)

Le motivazioni della giuria popolare:

Racconto di un punto di vista politico che professa il ricordo nella sua interezza. Il cervello tende a cancellare i ricordi meno piacevoli ed anche le persone lo fanno, ma di proposito. Un invito alla sincerità anche quando può risultare scomoda. Mai momento fu più azzeccato. Scorrevole, piacevole, i signori anziani protagonisti enfatizzano ulteriormente l’idea del “ricordo/passato” che non vuole essere celato, ma che per una ragione o per l’altra, o per sventura, si ritrova ad essere seppellito sotto strati di corten. (DAIANA ONGARI)

Il fascino dei denti storti, del collo tozzo e degli odori animaleschi. Tutti i canoni sono sovvertiti in questo racconto che si alimenta di un’interiorità tormentata. Benché il titolo faccia riferimento a un “diario”, l’impressione che il testo trasmette è più precisamente quella di puri pensieri estemporanei della protagonista. Adele può essere definita una donna vuota, con una visione tutta personale dei sentimenti e delle interazioni umane, che coltiva insolite speranze sullo sfondo di un’irrimediabile infelicità. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

Quegli occhi, da trasparenti, hanno cambiato colore, si sono sporcati di qualcosa che mi ha ricordato la mia collana di giada, appena una screziatura – questa e altre immagini simili costituiscono la peculiarità di questo racconto, ovvero richiami poetici che balenano chiari e semplici agli occhi del lettore, eppure incisivi, tanto da risultare indelebili. Una buona scrittura, che persegue un andante che ricorda una partitura, un pentagramma di note ben scritte che però a un certo punto si inceppa, cambia registro: c’è un punto ad esempio dove avviene un passaggio di tempi verbali, dal passato prossimo al passato remoto, che non ha una spiegazione plausibile (non c’è un flashback, ma un continuum temporale), e allo stesso modo, la sintassi cambia ritmo (da andante, diventa sincopata). Questo cambio repentino “guasta” la linearità e la bontà del racconto che poi, nel suo evolversi, arranca in un finale che, rispetto al resto, sembra debole, o comunque dettato dal bisogno – così pare – di essere concluso in qualche modo. (PLACIDO DI STEFANO)

Le motivazioni della giuria popolare:

Un divenire di pensieri in continua evoluzione, sincera l’indecisione, palpabile l’inadeguatezza. Molte donne vivono situazioni analoghe, poche lo ammettono. Realistici anche se alle volte assurdi gli stati d’animo, scorrevole come il fiume che porta all’olmo la scrittura, come la nostra immaginazione quando incontra la realtà. (DAIANA ONGARI)

Un breve ma intenso dramma psicologico consumato tra quattro mura. Lo spazio domestico fa da cornice a uno spazio interiore che va riducendosi sempre di più, a colpi di ricordi e di pensieri dolorosi. Il linguaggio immediato, i periodi sintattici ristretti al minimo e la forte frammentazione del testo veicolano al meglio l’evoluzione della storia. Tutto, alla fine, è ricondotto all’io narrante, in un’implosione autodistruttiva. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)

La forza di “Sana”, il suo tratto distintivo, risiede nel finale, dove l’effetto sorpresa si rivela e dispiega come le ali di un cigno. In effetti (riprendendo quest’ultima metafora), l’evento narrativo – in questo caso cinematografico – che più ricorda questo racconto, è il lungometraggio “Il cigno nero” di Darren Aronofsky. Ma, mentre la sceneggiatura del film ha una struttura solida e ben articolata, ovvero un’impalcatura ferrea che sostiene l’evolversi dell’intera vicenda, la trama narrativa del racconto in questione appare in certi punti incespicante, soprattutto nel rapporto tra le due parti dell’io, una delle quali Sana, ricerca il canone estetico di Cara, e quindi la sicumera di quest’ultima, mentre lei, la parte di lei più fragile, ha un pessimo rapporto con il proprio corpo e il mondo che la circonda. Ebbene, il dispiegarsi della relazione tra le due, nel senso di doppio sé, risulta – in certi momenti – non curato, la trama si sfilaccia e il racconto perde di forza. Certo, tutto può essere inteso come l’intenzione
di mettere in luce la confusione nella personalità della protagonista, ma allo stesso modo, lo stile non risulta coerente e forse una riscrittura meticolosa e più attenta, gioverebbe all’insieme. (PLACIDO DI STEFANO)

Scrittura accattivante, ricca di metafore efficaci. Al centro, una protagonista affetta da disturbo del comportamento alimentare. Lo sdoppiamento schizoide della sua persona, per le modalità con cui viene rappresentato, ricorda da vicino i thrillers psicologici dello schermo. (CARLO NELLO CECCARELLI)

Vince il Premio Zeno 2020, sezione racconti brevi, Valeria Micale con Una casalinga perfetta, perché l'autrice, nel fornire il ritratto di una moglie e madre "modello", ha saputo far emergere dal sottosuolo una certa inquietudine, un lato oscuro sopito e imprevedibile. (ANDREA TARABBIA)

Una casa perfetta non è una vita perfetta. I riti perfezionistici e la tecnologia sofisticata a cui si affidano le proprie rinunce, i propri sogni traditi, le scelte a volte forzate, a un certo punto si logorano e mostrano la trama come il più liso dei tessuti. I doveri inchiodano a ruoli che non dovrebbero esser codificati e invece lo diventano, e si finisce per affidare ai figli le proprie speranze in un passaggio generazionale di testimone, sapendo che anch’essi soccomberanno. Ma poi qualcosa si ribella e, consciamente o inconsciamente, al meccanismo di perfezione si consegna il preciso compito di deragliare, creando l’unica possibilità di fuga o, se si vuole, di salvezza. (PAOLO CASADIO)

Perfezione è la parola che meglio si adatta alla protagonista del racconto: la sua vita senza sbavature, la casa linda e arredata con gusto, la famiglia e il suo delitto! La scrittura ammalia il lettore con un linguaggio curato e preciso nelle descrizioni; il ritmo tiene nella brevità dell’opera, i dialoghi e i pensieri sono pennellate. Vi è tuttavia un’eccessiva intrusione dell’autrice, quasi a voler guidare il lettore nella comprensione, soprattutto nella sottolineatura del disagio di Marisella e nei continui riferimenti ai mortali parassiti rossi. (MARIA SCERRATO)

Racconto ben riuscito. La protagonista si muove in uno spazio domestico perfettamente a proprio agio, conformandosi al ruolo di moglie e madre, con un desiderio ossessivo di controllo e di ordine che tradisce un disagio esistenziale, una mancanza. L’autrice prepara la scena finale con sapienza, disseminando indizi in una spannung narrativa che si completa con la prefigurazione onirica poco prima dell’alba. Il sogno di una nebbia silenziosa e densa che avviluppa la casa, turba appena la protagonista ma non è sufficiente a dissuaderla dal suo piano. Con uno stile sobrio e misurato, un lessico puntuale e un ritmo in accelerazione, Valeria Micale dà voce allo straniamento, fin dal titolo antifrastico, e ci accompagna alla consapevolezza che la verità è solo una questione di prospettive. (ANGELA FLORI)

Superare il personale metro di misura nei confronti degli altri è sempre difficile, e lo diventa ancor più se l’altro è il proprio figlio. Non è un caso se le veloci, levigate pagine di questo racconto sono intrise d’acqua che tutto bagna, allaga e cancella. Metafora di un comportamento che non vuole accettare le differenze, la diversità filiale, la diversità in generale. Ci si àncora alle sicurezze senza ovviamente mai metterle in discussione. Non a caso sarà un barista – e dei baristi si narra il loro compito psicologico nei confronti dei clienti – a raccontare un piccolo, apparentemente banale episodio che ha quasi valenza di parabola salvifica. (PAOLO CASADIO)

Una preghiera che il figlio recita a tavola sconvolge i ventitrè anni di vita matrimoniale del protagonista e della moglie, in cui ovviamente non c’è mai stato spazio per la spiritualità. L’uomo, un alcolista, nonostante una pioggia torrenziale cerca rifugio nel bar. Qui trova sponda e rifugio nel dialogo con gli avventori e il barista ma senza tuttavia comprendere. La narrazione è efficace e convincente. (MARIA SCERRATO)

Nel racconto di Marco Angelini colpisce il rovesciamento distopico: lo sconcerto di genitori di fronte alla preghiera del figlio, il timore delle amicizie “travianti” che stanno spingendo l’adolescente alla fede, l’anti-parabola delle caldarroste convergono nella costruzione in antifrasi di un mondo sottosopra. La capacità descrittiva dello scrittore, grazie ad un uso delle parole che diventano pennellate, porta il lettore ad immergersi nel cronotopo di una serataccia piovosa, nel bar semivuoto sotto ai portici di una cittadina qualunque. I dialoghi sono ben costruiti, generalmente avvincente la forma. (ANGELA FLORI)

Le motivazioni della giuria popolare:

Un racconto stile Carver, condito di sagacia e humor nostrano, con degli spunti di riflessione per nulla banali. (NILLA PATRIZIA LICCIARDO)

Sopravvissute alla famiglia, al padre, la luce della società brilla come quello delle stelle già morte: è solo questione di tempo e poi si spegnerà nell’inconsapevolezza della fine già avvenuta. Le protagoniste di questo racconto vivono in una atmosfera straniata, sospesa, nebulosa, spezzata solo dalle parole con cui si scambiano vaghe e disordinate esperienze di vite che procedono solo per forza d’inerzia. Parole che appartengono a un mondo finito, e la titolazione inglese rimanda al gioco di lieve differenza tra “parola”, word, e “mondo”, world. Lieve differenza come vivere d’illusione, perché “siamo tutti morti”. (PAOLO CASADIO)

Racconto impostato su un dialogo tra due personaggi femminili. L’idea di base è originale; la narrazione è un poco appesantita da brani di pseudo-teoria di aspetto “didascalico”. (CARLO NELLO CECCARELLI)

Il racconto scava nella mente mentre rincorre la conversazione di due donne, nel “vecchio manicomio”. Nei ricordi di un passato dal quale non riescono ad emergere e che condiziona il loro immobile presente, dissertano alla loro maniera sulle rispettive famiglie, sulla follia e l’identità di genere, sull’amore e soprattutto della non-esistenza a partire dagli anni Novanta, con flash e riferimenti di contestualizzazione contemporanea. Al lettore spetta stabilire se tutto quello che è stato narrato è vero o distorto, se i personaggi sono vivi o morti, il senso della narrazione. (MARIA SCERRATO)

Se Dio fosse una scimmietta? Se noi fossimo dei morti? “La mia teoria è che il mondo è finito negli anni Novanta, ma non ce ne siamo accorti. O meglio, ci convinciamo di non essercene accorti”. Questo afferma la voce narrante del racconto di Sara Mazzini, un racconto che trova il suo punto di forza nell’originalità del contenuto. La vita, giorno dopo giorno, altro non è che la ripetizione di ciò che è già avvenuto; l’istinto primario degli uomini è la coazione a ripetere. E ancora: leggiamo il disagio di sentirsi costantemente fuori luogo, e lo struggimento impotente di fronte alla bellezza. Il punto debole della narrazione è la forma: i dialoghi, poco convincenti, non riescono a trasmettere emozione. Le sequenze mancano di ritmo. (ANGELA FLORI)

Le motivazioni della giuria popolare:

A una prima lettura il testo appare caotico, farneticante. Si ha bisogno di tornare sopra più volte, ma è uno stile che viaggia parallelo alle protagoniste e al loro stato d’animo e mentale, al precario equilibrio psichico che non nascondono mai e su cui l’autrice incentra il racconto. Troviamo una narrazione che racconta di ansie, problemi genitori-figli, problemi di sessualità e identità – il passaggio isterico da un soggetto all’altro, la sequenza soldati-fratello-padre- musica sono utili a ingrossare il racconto di confusione sociale –, che culminano nell’analisi della vita/morte e del suo piano mistico e divino. Il finale è sicuramente la parte più interessante, quasi scollegata dal resto, dove non c’entra più l’isteria ma il delay – il ritardo, quella sfasatura del segnale – che porta il lettore in un altro mondo, fatto di sogni ma soprattutto di incubi. (FEDERICA CAPODURI)

Vince il Premio Zeno 2020, sezione poesia, Valentina Cottini con Essermi maggio, perché è una poesia lirica, semplice nel messaggio ma ricca di trame e sottotesti, e il cui impianto rimanda alla grande tradizione del secondo Novecento italiano. (ANDREA TARABBIA)

Composizione breve, scolpita in appena undici versi di cui gli ultimi due separati dai precedenti. La maiuscola a inizio di ogni verso e l’assenza di punteggiatura (con l’unica eccezione dei due punti al penultimo verso), lasciano intravedere un lavoro di rigorosa sottrazione e di accurata pulizia, finalizzati a lasciare tutto il campo alla parola scandita, al suo peso e al suo contenuto. Il titolo (Essermi) e la prima parola della poesia (Prenditi) chiariscono immediatamente come chi scrive, pur alla seconda persona singolare, si stia rivolgendo innanzitutto a se stesso l’accorato e nel contempo misurato richiamo. Molto belle alcune immagini (cuci…/soffia via…). Nel finale l’autrice, al netto di una ridondanza musicale (porti/portano) appena forzata, ricompone il binomio maggio/fiori con un’una uscita originale e felice. (MARCO MAFFEI)

Composizione coesa e incisiva, con belle e personali scelte lessicali, su un argomento universale. (GIUSEPPE FEOLA)

Esortazione elegante, raffinata, con prevalenza di endecasillabi e settenari, e presenza di rime ed assonanze. Un 'riprendiamoci la vita' tutto rivolto al corpo e alle sue parti (cranio, spalle, polmoni, fianchi, occhi): la reazione consiste nell'approdo energetico, dinamico (ballo, porto) contrapposto all'immagine statica dei fiori al petto, propria dei morti. (LUIGI DI CARLUCCIO)

Essermi maggio risuona dal profondo, scuote nell'intimo tutta un'umanità provata. Spinta di Archimede più vera che in-vera, che in-vita alla vita riconducendola al largo. Ogni uomo tocca, tutto l'uomo rimette in gioco. (LUIGI IANZANO)

Versi stringati, immagini efficaci e affilate, componimento compatto nello stile e nel ritmo. (ELVIRA MANCO)

Essenziale, lirica, intreccio semplice di immagini e suoni, che culminano sapientemente nel prezioso ed ispirato distico finale. (DAVIDE TOFFOLI)

Testo allusivo, fortemente connotato da riferimenti a luoghi e avvenimenti non noti al lettore, dei quali si fatica talora a cogliere il significato, anche in metafora. Al netto di alcuni passaggi  e di alcune scelte lessicali oscuri (… annusa con freddezza le scorie… ornate da un substrato…/ …saluta i cavalli correnti che adorano andare incontro agli arcobaleni…/pettine emostatico…/…resilienza…) il testo è ricchissimo di spunti e immagini. Buono e felicemente sospeso il finale. (MARCO MAFFEI)

La composizione dimostra maestria nel padroneggiare gli stilemi della poesia di fine XX secolo. (GIUSEPPE FEOLA)

Attraverso il montaggio incrociato di frammenti eterogenei e il riuso di linguaggi tecnici ("errori del server", "privatizzazioni", "fermo-immagine") l'autore ci trasmette il senso di un "ordine sociale in putrefazione", una realtà paranoica nel quale è impossibile ravvisare un ordine. (SERGIO PASQUANDREA)

Una poesia come materia grezza che riesce a trasmettere un profondo senso di non finito, alternando parti che già suonano ad altre che lo soffocano per troppa materia presente ancora da sbozzare. (DAVIDE TOFFOLI)

Testo lungamente oscuro e criptico, in cui si rimasticano concetti che non trovano uno sviluppo, un percorso, un’uscita. Solo nei quattro versi finali si disvela un senso e il testo si stacca con leggerezza dal suolo. (MARCO MAFFEI)

La composizione cresce nel finale, svincolandosi dagli stilemi tardo ‘900schi (GIUSEPPE FEOLA)

Testo coraggioso che strizza l'occhio alla polifonia e regala spunti suggestivi, creando connessioni e costringendo ad assecondare un viaggio senza traccia apparente. Un ambiziosissimo e riuscito "manifesto a più voci". Un inno alla coralità e al canto indipendente. (DAVIDE TOFFOLI)