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Premio Letterario Zeno - X Edizione
Benvenuti su Zeno, progetto legato all’Associazione omonima, volta a promuovere la lettura, la scrittura e la cultura in generale.
Primo obiettivo del progetto è quello di estendere un concorso letterario di prosa e poesia edita e inedita.
Il Premio ha già avuto tra i giurati Simona Vinci (autrice per Einaudi, Rizzoli e vincitrice del Premio Campiello 2016), Aldo Nove (scrittore e poeta che ha pubblicato per Castelvecchi, Einaudi, Laterza, Bompiani), Diego De Silva (giornalista, sceneggiatore e scrittore presso Einaudi, Mondadori, Rizzoli), Giuseppe Culicchia (scrittore, traduttore e saggista presso Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Laterza, Garzanti), Emidio Clementi (Rizzoli, Laterza, Playground, Fazi, DeriveApprodi), Andrea Tarabbia (scrittore per Mondadori, Bollati Boringhieri, Transeuropa, Aracne, Il Saggiatore e vincitore del Premio Campiello 2019), Carola Susani (Feltrinelli, Minimum Fax, Giunti, Gaffi).
La giuria della X edizione del Premio Letterario Zeno coordinata da Emanuele Bukne (Edizioni Esi, Jota Project) e da Antonio Russo De Vivo (Crapula Club, Jota Project) è stata composta da Giulia Caminito (Giunti, Bompiani), Giuseppe Feola (ricercatore Scuola Normale Superiore di Pisa), Luigi Esposito Giardino, Marco Scarlatti, Natalia Guerrieri, Luigia Bencivenga (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Romanzi), Carlo Nello Ceccarelli, Angela Flori, Leandro Lucchetti, Valeria Micale, Livio Milanesio, Alessandra Serena Cappelletti (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Racconti), Sergio Pasquandrea, Luigi Ianzano, Fernando Della Posta, Valentina Cottini, Barbara Grubissa (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Poesia), Vincenzo Rezzuti, Marcello Greco, Luigi Di Carluccio. Hanno collaborato inoltre all'edizione 2022: David Bonanni, Federica Capoduri, Sara Notaristefano, Daiana Ongari, Stefania Raschillà, Giovanna Riccardo, Stefano Giuseppe Scarcella, Maria Scerrato, Davide Toffoli.
Il Giurato d'Onore
Giulia Caminito
Giulia Caminito è nata a Roma nel 1988.
Ha esordito con il romanzo La Grande A (Giunti 2016). Ha scritto inoltre una raccolta di racconti dal titolo Guardavamo gli altri ballare il tango (Elliot 2017), e due libri per bambini: La ballerina e il marinaio (Orecchio Acerbo 2018) e Mitiche, storie di donne della mitologia greca (La Nuova Frontiera Junior 2020). Il suo secondo romanzo è Un giorno verrà (Bompiani 2019) mentre il terzo si intitola L’acqua del lago non è mai dolce (Bompiani 2021).
Nella vita lavora come editor e si occupa di narrativa italiana. È nella redazione di Letterate Magazine, il magazine online della Società Italiana delle Letterate e fa parte del collettivo editoriale le Clementine. È la curatrice di un festival letterario che si tiene a Roma nelle scuole, Under - festival di nuove scritture in collaborazione con l’Associazione Da Sud.
Ha portato i suoi laboratori di scrittura in librerie, biblioteche, scuole e carceri.
Vincitori e Finalisti
Sezione A: Romanzi Editi
Gian Marco Griffi
Ferrovie del Messico (Laurana Editore, 2022)
Un romanzo d’avventura che sa intrecciare contesto storico e distopia, dando alla vicenda contorni surreali e insieme plausibili e lasciando trapelare una vena comica e tragica insieme. Un lavoro imponente per mole e per inventiva, che riesce a evocare l’assurdità di un sistema politico dittatoriale, asettico e privo di raziocinio. Il suo protagonista, Cesco risulta insieme grottesco e concreto, i personaggi sono moltissimi e ben orchestrati. La scrittura si muove su numerosi registri e particolarmente riuscito risulta soprattutto quello in prima persona di Cesco, perché ricco di ulteriori riferimenti linguistici e sintattici. Il libro riesce a essere pienamente politico, pur non contemplando la possibilità di esserlo apertamente. (GIULIA CAMINITO)
Il romanzo si dispiega tra l’Italia e il Messico del secolo scorso, facendo dialogare situazioni immaginarie e vicende storiche realmente accadute. Il libro, enciclopedico, come lo definisce nella postfazione Marco Drago, è animato da una miriade di personaggi; fra loro Cesco Magetti, milite della Repubblica Sociale Italiana incaricato di compilare una mappa delle ferrovie del Messico per permettere al führer di recuperare “l’arma risolutiva”, la ricca Tilde Giordano munita della sua macchina fotografica, il partigiano Steno, Adolf Hitler in persona e Eva Braun, i becchini Angelo e Mec, l’impiegato Bardolf Graf e moltissimi altri che si avvicendano in una dimensione ampiamente corale. La storia ruota attorno a un libro intitolato "Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México", e ricalca la forma labirintica dell’esistente, «La nostra vita è un labirinto inestricabile, un gomitolaccio aggrovigliato da un beffardo artefice, i cui capi stanno sommersi in abissi che non raggiungeremo mai», scrive l’autore a p. 378. Il non senso dell’esistenza e l’orrore della guerra sono temi centrali che in alcuni punti accostano il libro a "Viaggio al termine della notte" di Céline, seppur con una grossa differenza di tono, che in questo caso è generalmente grottesco e giocoso. La lingua è letteraria ma di facile accesso e Gadda e Borges vengono apertamente richiamati come modelli. Sono di particolare impatto alcuni passaggi che possono riferirsi tanto alle guerre e alla miseria passate come a quelle odierne, soprattutto il momento in cui Gustavo Bertone, a p. 332, dice: «Annoterò che ho scavato una fossa per seppellire tutti i bambini del mondo vissuti senza una ragione, quelli per cui ogni giorno è semplicemente un giorno di agonia in più; che ho scavato una fossa per far sì che contenesse tutti i corpi affamati, annegati, torturati, dimenticati, profanati.») Il romanzo di Griffi è sterminato e potenzialmente infinito, tanto che in chiusura un’immagine accosta Cesco e i suoi a un gruppo di naufraghi. (NATALIA GUERRIERI)
Ha ragione Marco Drago che, nella postfazione, definisce questo libro un romanzo enciclopedico, scomodando mostri sacri postmodernisti come Pynchon, Joyce, Borges e Gadda. La trama, per un testo così magmatico e dirompente, appare un fatto accidentale, una cosa di poca importanza. E infatti lo è, perché cosa c'è di più inutile dell'ordine di redigere una mappa delle ferrovie del Messico, che Cesco Magetti, della Guardia nazionale repubblicana di Asti, riceve da un superiore nel lontano 1944? Romanzo di oltre 800 pagine, dove il tempo (della lettura e della storia) smarrisce significato e orientamento, ma dove la mano dell'autore, nonostante le accelerazioni e le sirti della narrazione, non perde mai di vista l'obiettivo finale: trascinare il lettore lungo un'avventura tragicomica e strampalata, elaborata in modo quasi perfetto. Fra i romanzi più festosi e riusciti del 2022. (MARCO SCARLATTI)
Se l’epoca e l’ambientazione di questo romanzo ci fanno subito pensare alle pagine più drammatiche delle nostra storia, già raccontate innumerevoli volte da opere di ogni genere, il tono parodico e il gusto per il grottesco comunicano fin dalle prime pagine che questo, malgrado l’intestazione diaristica di ogni capitolo, non è e non vuole essere un romanzo storico. Ma in fondo, in parte citando il testo, possiamo chiederci: chi è il lettore per stabilire se una storia è una storia di fantasia oppure no? La trama centrale si snoda in un reticolo di percorsi differenti, poiché ogni nuovo personaggio dà il via a una nuova storia, facendo così assomigliare a tratti la narrazione a un labirinto, ma un labirinto che è piacevolissimo esplorare. Che cosa tiene insieme tutte le vicende? Forse “uno slancio vitale, un innamoramento spasmodico e selvaggio per la vita umana”. "Ferrovie del Messico" è insomma un connubio di sorrisi e lacrime, fatti reali e gustosi anacronismi, un romanzo che ha tanto da dire. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il romanzo è ambientato alla fine della seconda guerra mondiale, tra Asti, la Germania e il Messico. Cesco Magetti, poliziotto ferroviere repubblichino sofferente di mal di denti, viene incaricato di compilare la mappa delle Ferrovie del Messico, mentre in stazione c’è una ben più grave emergenza: molte persone spariscono misteriosamente dopo avere preso il treno. Cesco è innamorato della bellissima Tilde, che però è fidanzata di Steno, partigiano pacifista. A questi personaggi, in una narrazione polifonica, se ne aggiungono poi moltissimi altri, da Bardolf perseguitato per avere ricevuto in regalo un libro sulle ferrovie del Messico, a Hitler stesso ed Eva Braun, a Schöngarth infiltrato nella Gestapo, a Lito custode del cimitero ed ex pugile, per arrivare fino ad Edmondo Bo, frenatore e poeta, e a tanti altri. Alla ricerca del libro sulle Ferrovie del Messico che dovrebbe consentirgli di compilare la mappa, Cesco subisce la volontà di tutti, siano nazisti, fascisti o partigiani, finché non reagisce uccidendo brutalmente un ufficiale tedesco che voleva umiliarlo. Da sottolineare il polimorfismo stilistico del testo, in un romanzo che sembra ispirarsi un po’ a Gadda e un po’ a Pynchon, ma che ricorda anche, per come è scritto, Bolano e in qualche pagina Gospodinov. Ironia e gusto del paradosso sono gli ingredienti principali di un testo che vuole essere soprattutto un gioco e che è tutto tranne che un romanzo storico. C’è anche un po’ di Kafka, come potrebbe non esserci, parlando l’autore di un mondo dove gli ordini provengono dall’alto e sono sempre indiscutibili, specie quando sono assurdi. E c’è un po’ di Fenoglio, con una questione privata, l’amore di Steno per Tilde, che non ha però la forza dell’originale. Patchwork letterario composto da un’infinità di suggestioni di lettura, il romanzo trova un senso nell’incapacità umana di redimersi dalla naturale tendenza all’insensatezza. E questo è confermato da un umorismo necessariamente amaro. A mio parere limiti e pregi di questo romanzo coincidono in un manierismo alla Pynchon, raffinato ma nello stesso tempo povero di significati. Debordante nelle sue più di ottocento pagine, non tutte indispensabili, il testo si legge piacevolmente ma rischia, alla lunga, di stancare. Per fortuna lo salva uno stile che attingendo da una letteratura universale riesce ad essere anche originale. (VINCENZO REZZUTI)
Asti 1944. Il milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria Cesco Magetti riceve l’incarico di disegnare una mappa delle ferrovie del Messico. Da questo esile inizio, prende le mosse l'epico romanzo di Griffi. Digressioni, citazioni, livelli narrativi diversi vengono padroneggiati da Griffi adattando perfettamente ritmo, lingua, registro. Potrebbe essere un futuro classico o, comunque, meriterebbe di diventarlo. (SARA NOTARISTEFANO)
Francesca Zupin
Salvamento (Bollati Boringhieri, 2022)
Una ottima storia di formazione, un romanzo sui legami, la famiglia, sul ruolo delle parole e le loro definizioni, sullo scorrere del tempo e su come questo trasformi i rapporti umani. Francesca Zupin riesce a dare voce a un io narrante maschile credibile con grande delicatezza e abilità, con una lingua pulita, puntuale ed evocativa. La scrittura sostiene l’intera narrazione, è curata, ben pensata e ben costruita. Si nota il buon lavoro linguistico dell’autrice, la sua capacità di raccontare difficoltà interiori ed esteriori grazie al sostegno di una lingua non banale senza essere eccessivamente artificiale. (GIULIA CAMINITO)
Giulio è un personaggio che si ritrova a stare stretto tra le relazioni che lo circondano, quella distaccata con il padre, incapace di comunicare con lui, e quella tormentata con Stella, sua compagna di vita sin dall’infanzia, da cui è per gran parte della vita ossessionato. Durante l’infanzia e la giovinezza, Giulio adegua la propria esistenza agli incavi lasciati vuoti fra gli spazi che si prendono gli altri. Vive per occuparsi degli altri, per modellarsi sugli altri, e in questo trova inizialmente il suo habitat sentimentale. È nella desolazione di Stella che si emoziona, mentre la possibilità dell’autonomia della ragazza lo spiazza: «… mi scoprii infastidito da quella sua ritrovata compostezza che avrebbe reso le mie premure inutili e superflue.» (P. 60) Stella è autoreferenziale e questo le permette di essere incoerente, anticapitalista ma affascinata dagli oggetti simbolo del ceto medio, esclusiva nel rapporto con Giulio ma attratta da Bobo, sedotta dall’idea di diventare un’artista ma in realtà più a suo agio a lavorare in un museo. Giulio valuta l’incoerente universo di Stella dapprima come un affascinante mistero e poi come un’asfissiante, eterna immaturità. Le location del libro sono una costellazione sottotono di tappe della piccola borghesia, un appartamento da arredare, le corsie del supermercato, il centro commerciale, uno studio medico, un campeggio devastato dalla pioggia, ambientazioni desolanti che contribuiscono a lasciare sospesi e, quindi tanto più protagonisti, i sentimenti, i dubbi, i ricordi. Il romanzo procede seguendo, da un lato, la descrizione lenta del rapporto tra Stella e Giulio e di questi ultimi con Bobo, il terzo e ingombrante protagonista della storia, dall’altro, attraverso l’accumulo progressivo di lemmi di cui si definisce il significato, come in un piccolo dizionario esistenziale che procede di pari passo con la storia narrata. I capitoli finali del romanzo sono particolarmente densi e spingono a rileggere l’intero libro sotto a una differente prospettiva, conferendo nuovi, stratificati, significati alla storia. (NATALIA GUERRIERI)
Romanzo all'apparenza semplice, narrato in prima persona da uno dei tre protagonisti. È la storia di un amore maturo che va avanti dall'adolescenza, che finisce già nelle prime pagine ma che in realtà non terminerà mai. È anche la storia di un uomo corroso dalla gelosia, che ama più di quanto è amato, nonché quello d'un abbandono inizialmente incomprensibile e alla fine chiarissimo e lineare. Opera narrata in uno stile piano ed elegante, ricco di citazioni, che a volte si compiace troppo nello sfoggio d'erudizione. Un testo vero e crudele, ma anche romantico e lirico, nostalgico e dall'andamento vagamente proustiano. Un romanzo godibile anche letto in modo rapsodico. (MARCO SCARLATTI)
"Salvamento" è un viaggio umano raccontato attraverso le emozioni e i ricordi di Giulio, protagonista e voce narrante. Una storia di sentimenti più che di eventi, narrata con una scrittura metaforica capace di farci vedere un legame tra uno spremiagrumi che gira in cucina e la retromarcia di un camion della spazzatura, tra il roveto ardente del Sinai e un mozzicone di sigaretta. A conclusione di tutti i capitoli, l’autrice dedica uno spazio a un verbo per sviscerarne tutti i possibili significati, offrendo frammenti di un dizionario delle emozioni, una scelta che dà profondità al testo, ma che talvolta potrebbe appesantire la lettura. Pur essendo ricco di riferimenti colti ed elementi metaletterari, il romanzo ci insegna in definitiva che ciò che davvero conta si trova “nelle parole semplici, negli spazi bianchi”. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Giulio e Stella sono “quasi fratelli”. Morta la madre, il padre di Giulio si è infatti risposato con la madre di Stella, ed è così che i due ragazzi, allora appena adolescenti, si sono conosciuti. Ora sono diventati adulti e si vorrebbero sposare, come nell’antico Egitto potevano fare i fratelli di sangue. Con uno stile leggero e armonioso, l’autrice descrive bene i turbamenti di chi cerca la propria dimensione nella vita senza vere speranze di riuscire a trovarla. Il “salvamento” sta tutto nella possibilità di appoggiarsi uno all’altra e viceversa, con qualcosa che potrebbe essere amore, ma che si sa provvisorio. Romanzo di formazione forse ispirato a Sally Rooney, si sviluppa in episodi su diversi piani temporali (2005, 1992, 1997, 2018), che descrivono l’età adulta e l’adolescenza dei due protagonisti. Nel primo si narra del viaggio verso un’autonomia dolorosa che parte da un appartamento nel centro storico di Trieste, l’inizio di una convivenza tra ex fratelli che si scoprono diversi. Giulio, il narratore, vorrebbe rinchiudersi nella gabbia dorata di una coppia felice, Stella si sente invece soffocare dalla mancanza di libertà e crede di essere malata. La psicoterapia è la soluzione ovvia, fallimentare già in partenza, segno di una resa che non si vuole accettare. Sullo sfondo c’è anche il senso di colpa per un rapporto che la famiglia, soprattutto il padre di Giulio, giudica incestuoso, pur essendo del tutto legale. Nel secondo episodio Giulio rievoca l’estate del 1992, nel campeggio di Grado con Stella e i genitori, un’iniziazione all’amore e alla vita che dà credito ai tormenti adolescenziali, troppo spesso confusi dalla cultura corrente con l’infanzia. Nel terzo i miti dell’adolescenza (curiosamente il primo è “Il grande Gatsby”) segnano le scelte e la vita dei due ragazzi diventati liceali, che con grande scandalo della famiglia finiscono per mettersi insieme. Nel quarto, la conclusione, l’età matura presenta l’elenco delle perdite. Ed è evidente che non si può più tornare indietro. La vita descritta dall’autrice è questo incerto vagare esistenziale, tra sensazioni ispirate da film, cd musicali, quadri e libri e quelle dei rapporti sentimentali pieni di contraddizioni. Sullo sfondo, lontanissimi, ci sono la società, il lavoro, una città dove qualcuno ha problemi economici, come il padre di Giulio a un certo punto della storia. Ma questo pare essere di secondaria importanza, di fronte alla difficoltà di essere che ti porta a disperarti per la morte di pesciolini rossi diventati tamagotchi. Ecco allora la necessità di affidarsi, assenti i genitori superstiti, al ricordo di un mitico compagno di scuola, Bobo, grande e confessato amore di Stella, che nel ricordo ha lo stesso fascino di Gatsby, ma che nella realtà era solo un bullo un po’ colto che messi da parte i sogni aveva scelto di diventare medico. Ma sarà proprio Bobo, alla fine, a sposare Stella e a tentare di ricondurla a quella normalità dalla quale voleva fuggire. Alla fine di ogni capitolo c’è un curioso dizionario con il commento, più che spiegazione, di una o più parole che tutti conosciamo, ma che usiamo sbadatamente senza pensare a cosa possono significare nelle nostre vite. “Salvamento” è la parola che Stella legge sulle canottiere dei bagnini in un campeggio al mare. (VINCENZO REZZUTI)
Claudio Conti
L'uomo che ha venduto il mondo (pessime idee, 2022)
"L’uomo che ha venduto il mondo" è un romanzo bizzarro in cui l’autore fonde elementi distopici, personaggi fuori dalle righe e dialoghi al limite del grottesco. Ma ci sono anche molti elementi grafici (piccoli disegni, locandine cinematografiche, giochi di parole) che accompagnano il lettore nel corso della storia. Nel romanzo di Conti tutto comincia con la comparsa di “una riga” ed è grazie a questa che prende il via la storia: la riga cambia la vita e influenza i destini di tutti i personaggi che si adoperano per affrontare quel presunto pericolo. La scrittura risulta buona, l’idea è estraniante, ma intelligente. (GIULIA CAMINITO)
Il titolo del romanzo cita la nota canzone "The Man Who Sold The World" di David Bowie e sembra in dialogo con il verso “We never lost control” ribaltandone il contenuto, narrando di un’assoluta e generale perdita di controllo e riferimenti. Gioele, Emma, Tony, Fede, Lisa, Sara, Andreas sono i protagonisti della storia che avviene nel presente, quando una misteriosa linea spezza a metà il cielo privando l’umanità di ogni certezza. Elio Leon e la moglie Sofia animano invece la vicenda che si svolge diversi anni prima e che si ricollega alla prima. Le vite di tutti questi personaggi si alternano, mescolandosi in maniera volutamente forsennata, rispecchiando sulla pagina il caos imperante dell’esistente. Siamo vicini alla fine del mondo e ogni cosa è in disordine, ancora in cerca di un senso. Negli anni Settanta, Elio Leon, fisico e filosofo, ipotizza l’esistenza di un’energia sentimentale e costruisce un accumulatore in grado di raccoglierla. Infine produce un segnale audio che inserisce sotto forma di impulsi elettronici nel brano "Europe Endless" in maniera tale da poter rubare l’energia sentimentale a chiunque ascolti questa musica. Con l’avanzare della storia, si comprende come la misteriosa riga apparsa in cielo e il progetto di Elio Leon si intreccino, facendo avvicinare le due linee temporali e i vari personaggi. L’universo intero, nel libro, è retto da una divinità bambinesca e capricciosa perfettamente in linea con il disordine generale. L’alternarsi veloce e continuo di personaggi e situazioni, la perdita di punti di riferimento e il susseguirsi di momenti comici e drammatici fanno pensare al poema cavalleresco come a un interessante possibile modello. I toni comici e grotteschi, il ritmo rapido che alterna dialoghi, le immagini e gli inserti grafici contribuiscono a caratterizzare in maniera originale uno scenario che si configura come distopico. (NATALIA GUERRIERI)
Tra Fisica, fantascienza e spiritualità, "L’uomo che ha venduto il mondo" è un romanzo interessante la cui trama ci parla di una catastrofe apocalittica, dei misteri che vi ruotano attorno e soprattutto di una tormentata ricerca sulla vera natura delle emozioni. Nel seguire il percorso della storia nei suoi diversi piani temporali, il lettore deve districarsi tra alcune scelte stilistiche non convenzionali: le note a piè di pagina che offrono un misto tra il commento a una sceneggiatura e annotazioni da artifizio letterario di manzoniana memoria; gli intermezzi onirici molto estesi e criptici; i dialoghi in svedese la cui traduzione non è fornita nel modo più immediato. Ritengo personalmente che una storia profonda e appassionante come questa avrebbe forse funzionato meglio in una veste narrativa meno sperimentale. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il romanzo inizia con il tè offerto da una bambina ad alcuni bizzarri invitati, riferimento più che palese a “Alice nel paese delle meraviglie”. Carroll è l’ispiratore, però, solo di una parte del romanzo, dove protagonista è l’immaginazione di Lisa, la bambina con sindrome autistica, secondo la madre Federica, o più probabilmente con la sindrome di Asperger. Il resto, un’infinità di vicende intrecciate, gira attorno alla “riga” che lacera il cielo: disastroso effetto dell’audace esperimento temporale di un fisico (il padre di Federica) che voleva provare a dare un futuro diverso alla donna che amava (la madre di Federica), vittima molti anni prima di un incidente che le aveva rovinato la vita. A salvare il mondo sarà una divinità bambina, la sola in grado di indicare una via di salvezza all’umanità. “L’uomo che ha venduto il mondo” è la traduzione del titolo di un brano musicale di David Bowie (“The man who sold the world”). Opera complessa, multiforme, a volte incostante, che nelle parti dove Lisa è protagonista ha una narrazione giocosa e vagamente surrealista (come nel caso di uno starnuto che scombina le lettere della pagina), mentre il resto è più convenzionale, con tanti personaggi manovrati da un autore burattinaio che si tiene nell’ombra e altre pagine dove il fisico racconta in prima persona la sua vita (che secondo me sono quelle che funzionano meno). Se vi sono lampi di immaginazione notevoli, qualcosa non è alla stessa altezza. Sono soprattutto alcuni dialoghi a sembrare troppo piatti e scontati per un testo come questo (ricordano certi dialoghi di film mainstream americani). Nel complesso, però, il gioco un po’ alla Pynchon regge senza disorientare troppo il lettore. Infine un paio di osservazioni critiche, che nulla tolgono alla validità del testo. L’uso delle note, un po’ inconsueto in narrativa ma già utilizzato da altri come ad esempio David Foster Wallace, crea un effetto straniante che attenua il coinvolgimento del lettore. Inutilmente ostica per il lettore, a mio parere, è pure l’assenza di righe di separazione quando si passa da una scena all’altra all’interno di un capitolo. (VINCENZO REZZUTI)
Abbattere le barriere temporali. Attraversare il tempo, tornare a un determinato istante già vissuto per cambiare il corso degli eventi. È uno dei sogni degli uomini di tutti i tempi ed è quanto riesce al protagonista della vicenda narrata, anche se il suo “salto indietro” gli permette di rivivere situazioni passate, ma senza svestire i panni del vecchio che è diventato. Vicenda avvincente, surreale, ma che in un (prossimo?) futuro, chissà, potrebbe diventare realtà. Molto ben congegnato, indovinata la sovrapposizione delle vicende dei numerosi co-protagonisti, ben delineati anche con pochi tratti. Ottimamente resa la terribile atmosfera della lotta per la sopravvivenza, uomo contro uomo, che si viene a creare nella miniera. La conclusione “Dei grandi non c’era più traccia e le strade non erano più pericolose come prima” è un atto d’accusa rivolto al mondo come gli adulti lo hanno costruito e insieme un messaggio di speranza e di fiducia nella presenza salvifica dei bambini. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Daniela Cicchetta
L'ultima lettera di Einstein (Miraggi, 2022)
Tre donne, le cui vite viaggiano in parallelo tra passato, presente e futuro e chissà come si intrecciano. Le loro storie sono narrate da Dunia, una donna dei giorni nostri che durante un viaggio a Stonehenge nel 2019 riceve un forte messaggio e, finalmente, accetta di rivelare quello che sa da sempre. Dymfna sacerdotessa druida nel 54 a.C. e Deena ricercatrice che vive il futuro del 2190 dove la Terra è in pericolo ed il solo mezzo per salvarla sono dei documenti inediti di Albert Einstein sui viaggi nel tempo. Il romanzo narra le storie singole di queste tre donne, che inevitabilmente si intrecceranno tra loro in una continua lotta tra sentimento e ragione, ma anche responsabilità per la salvaguardia del pianeta. Coinvolgente, ricorda Cloud Atlas, dove passato, presente e futuro non sono altro che il protrarsi dei meccanismi malati dell’uomo fino a quando qualcuno non ne porrà fine. (DAIANA ONGARI)
Al di là dello spazio e del tempo. L’amicizia di tre donne vissute in epoche e luoghi diversi le cui vicende misteriosamente si intrecciano portandole a incontrarsi, comunicare tra loro, allearsi e aiutarsi, quasi fondersi realizzando – almeno per qualche istante – l’antico sogno dell’uomo di superare ogni limite spazio – temporale. Romanzo garbato, capace di catturare l’attenzione del lettore e regalare emozioni. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Jacopo Tosco
London voodoo (minimum fax, 2022)
Una follia collettiva sta colpendo Londra. Atti di violenza gratuiti ed omicidi vengono compiuti da persone insospettabili. La “Sezione”, una specie di polizia speciale voluta dal governo, è autorizzata ad utilizzare qualsiasi metodo pur di porre fine ai crimini. La gelida Eva B ne è il capo, il Porco e Dennis Tabbot sono i suoi più spietati agenti. Privi di morale e sadici, sono grandi esperti di voodoo urbano. Comunicano tra loro morsicandosi, obbligano alla confessione stritolando i sospetti dentro i bagni di un pub. Nel frattempo il paese e l’intera Europa sono vittime di una terribile pandemia, di cui si sta cercando l’antidoto. Comparendo nel romanzo anche come narratore, Alfred Vestod è l’untore che ha causato tutto questo, provocando un’altra malattia, ben più grave, che obbliga chi si ammala ad uccidere. Ma chi c’è dietro Alfred Vestod? Romanzo apocalittico con qualche caratteristica new weird, "London Voodoo" sembra una disperata riflessione sulla realtà sociale, prima che politica, di un Occidente che ha già passato l’orlo del suo declino e che si sfalda in egoismi nazionali e lobbistici. C’è, forse, un po’ di compiacimento in questo tuffo nell’orrore che corrisponde più a un diffuso immaginario che a una realtà troppo complessa per essere interpretata univocamente. L’autore riesce però a rendere percepibili molti nostri fantasmi, e gliene va dato merito. Che la caotica città sia un ricettacolo di crimini nascosti è l’incubo che nel romanzo diviene realtà e che avvicina il testo ad arte e cinema americani. Volendo trovare dei riferimenti, non ci si può fermare alla sola letteratura (mi vengono in mente Cormac McCarthy, Chuck Palaniuk e Elmore Leonard), ma bisogna guardare anche al cinema, ad alcuni film entrati nella mitologia contemporanea come "Blade Runner" e "Trainspotting" e a molti di Quentin Tarantino. Sono storie che giocano con l’orrido rendendocelo familiare, così come fa questo romanzo. Che è, occorre dirlo, magnificamente scritto, avendo l’unico suo difetto nell’essere solo una delle tante storie lette o viste in questi anni che parlano dello stesso mondo distopico. Senza aggiungere grandi novità (tanto che questo mondo ci sta diventando ormai familiare). (VINCENZO REZZUTI)
Sezione B: Romanzi Inediti
Cristina Pasqua
Cinque
Romanzo sulla vita di cinque ragazzi nei sobborghi degradati di Roma. Ben scritto, dotato di ritmo, ha il suo limite, o forse il suo senso più autentico, nell’assenza di una vera e propria storia. Non è altro, infatti, che la descrizione della realtà grigia che vivono i cinque protagonisti. A turno narratori, il Sudicio, Philip Morris, il Gramo, Sottomarca e Giovanni (il meno integrato nel gruppo, tanto che non ha un soprannome), raccontano di piccole disgrazie familiari e della noia delle loro giornate. Ragazzi si diceva, ma in realtà non più tali (il romanzo si apre con uno di loro allo specchio che vedendosi pensa che potrebbe avere tanto venti quanto cinquant’anni), che invecchiano in una periferia anonima, senza lavoro o con lavori precari. Reduci da un’infanzia mai realmente terminata, tra loro c’è chi gioca ancora coi pupazzi di plastica della Mattel, tipo GI Joe, Barbie, Ken, ecc. Tutti hanno iniziato a lavorare, spesso ritrovandosi dopo breve tempo disoccupati. C’è chi lavorava nella pasticceria di famiglia che poi ha dovuto chiudere, chi in un negozio di casalinghi che sta andando in malora, esempi della decadenza di una società di piccoli commercianti e imprenditori progressivamente polverizzata dalla globalizzazione. Viene da pensare a “Ragazzi di vita” di Pasolini, così accurato nel descrivere un ambiente degradato, ma qui, ed è forse voluto, di degradato non c’è altro che i palazzi scorticati e i ragazzi attaccati ai loro cellulari. Non c’è più nemmeno il dialetto imbastardito, non ci sono gli espedienti per rimediare quattro soldi. Insomma, passività totale, come forse anche nella realtà. Ma la differenza è soprattutto sociale: non più il sottoproletariato urbano di Pasolini, ma l’atomizzata nebulosa formata da disoccupati, precari e piccoli commercianti sull’orlo del fallimento, che condividono i sogni di ricchezza di tutti, pur essendo consapevoli che solo un colpo di fortuna potrebbe cambiare una sorte segnata. A ciò si aggiunge una terribile difficoltà di comunicare. I cinque si vedono sempre, ma non riescono mai a parlarsi veramente: la stessa fine improvvisa nasce da una frase non detta. L’autore adotta un linguaggio universale giovanile, terribilmente standardizzato, e non lo si può certo biasimare per questo, perché rispecchia la realtà. Il romanesco di “Ragazzi di vita” appare oggi antico, quasi una lingua estinta, almeno nella parte della popolazione nata dopo gli anni sessanta. Così il romanzo che oggi vuole parlare della realtà sociale non ha più lingue da utilizzare, se non una, unica, uguale per tutti, con la quale non si comunica nemmeno, se non a monosillabi o a frasi mozzate. (VINCENZO REZZUTI)
Michele Arezzo
Ninna nanna per elefanti
Scene dalla vita di Erri, laureato disoccupato e rinunciatario che non trova, ma nemmeno cerca, la sua strada. Originario di un paesino della Sicilia, vive in una città che gli è estranea, Torino, senza però rimpiangere il suo luogo d’origine. Il romanzo inizia in modo folgorante con la veglia funebre per la madre di Erri, nella lontana Marzamemi. Qui la sensazione del protagonista di non appartenere ad alcuna comunità di persone (né quella del paese di origine né quella della città dove vive), il suo sentirsi sempre fuori posto, viene descritta in maniera perfetta, utilizzando un linguaggio soggettivo ma efficace. L’osservazione è minuziosa, ogni gesto e ogni emozione, anche banali, diventano significativi. Nei capitoli seguenti Erri è alle prese con una realtà metropolitana rispetto alla quale si sente impotente: il ragazzo che per gioco attraversa i binari al momento del passaggio della metropolitana o la ragazzina cui dà ripetizioni, che risolve i propri problemi con la filosofia facendo sesso con il professore, sono solo sintomi di un male morale diffuso che non riesce ad accettare. La sua cultura filosofica, in questo mondo, non serve a nulla, nemmeno a procurargli un panino. Ma anziché ribellarsi a questo stato di cose, Erri sembra accettarlo, vivendo la sua vita come un viaggio all’inferno. E nello stesso tempo non accetta di integrarsi, preferendo restare ai margini e trovando più affinità con gli emarginati totali come la senzatetto Elena (o come l’Umberto D del film di De Sica) che con il coinquilino, pur simile a lui, che ha preferito trovarsi un lavoro qualsiasi per avere un po’ di normalità. La nausea che Erri prova nei confronti del mondo ha il suo culmine in un tentativo di suicidio che fallendo ha l’effetto paradossale di fargli desiderare la vita. E forse è proprio questo che Erri aveva sperato, buttandosi sotto l’autobus: di non morire, di costringere gli altri ad aiutarlo, di rinascere in un altro mondo. Il linguaggio adottato è solo apparentemente dimesso, quasi diaristico, perfetto nel riprodurre le sensazioni e i ricordi del protagonista. Nelle sue meste riflessioni si trovano diversi spunti illuminanti, ma sono soprattutto le descrizioni minuziose delle persone e degli ambienti ad avere il pregio raro dell’originalità. Volendo trovare dei riferimenti letterari, occorre tornare un po’ indietro, tra Salinger e Beckett. Di romanzi che descrivono la nausea che il protagonista prova verso il mondo, del resto, è piena la letteratura. Molti sono esempi inavvicinabili, come “Memorie dal sottosuolo” di Dostoevskij, “La nausea” di Sartre, eccetera. In questo caso, però, mi pare che si dovrebbe considerare anche la narrativa che parla dei reduci di guerra, come ad esempio “È il tuo giorno, Billy Lynn!”, di Ben Fountain. Questo perché l’atteggiamento del protagonista è tipico di chi torna a una vita normale aspettandosi di essere riconosciuto come eroe, e siccome questo non accade la reazione è di disgusto, di rabbia e di nausea verso un mondo arido che non ti comprende. E l’eroismo, in questo caso, consiste forse nell’avere creduto, studiando all’università, di potere migliorare la vita. (VINCENZO REZZUTI)
Vincenzo Liguori
Veleno
"Veleno" è un romanzo decisamente crepuscolare dallo stile piano e razionale. Ambientato in una città non identificata, ma riconoscibile per la presenza di un vulcano attivo, narra le vicende di Liberato Spina riportate a un medico nel corso di lunghe telefonate notturne. Spina è un anziano compositore ritiratosi a vita solitaria, amante della filosofia, colpito da glaucoma che imputa alla continua esposizione al veleno sprigionato dai fumi e dai gas della sua terra rantolante. Conosciutisi per caso nel corso di una visita al pronto soccorso, il musicista e il dottore hanno in comune Nora, brillante storica dell'arte, esperta di Balthus. La donna ha sacrificato il suo talento e una brillante carriera all'amore di Spina, per poi sposare, quasi come ripiego, l'oculista. Ogni pagina rimanda, anche attraverso puntuali citazioni da Pascal a Nietzsche, ad elaborate riflessioni che filtrano e/o sostengono la particolare visione del protagonista. In tal modo, brevi e dense immagini si alternano a pensieri ben organizzati. All'immagine della sbronza con cui il giovane Spina festeggia lo sgretolarsi della famiglia, come se in quel giorno fosse caduto un regime autocratico, si alterna la riflessione sulla solitudine intesa come salvezza o sulla morte, definita come il “buio silenzioso della malattia che ci rende morti quando ancora siamo in vita”. L'osservazione che, a mio parere, si adatta bene al nostro tempo e all'ansia di successo a tutti i costi, riguarda il fallimento: “Essere artista è accettare senza delusioni il proprio fallimento fino al punto da rendere il proprio fallimento un’opera d’arte, un capolavoro, il capolavoro del proprio fallimento”. È tanto forte tale convinzione che il protagonista auspica la nascita di una vera e propria pedagogia al fine di abituare gli uomini a “fallire sin dalla più tenera età”. In un romanzo, il rischio di tale alternanza, è quello di cedere alla speculazione filosofica e fare arretrare l'azione, dunque il ritmo narrativo. Eppure la materia narrativa c'è e “rantola”, a cominciare dalle figure femminili: la madre usuraia scomparsa all'improvviso, di cui nemmeno si è trovato il corpo, è sapientemente disegnata e la relazione tra allattamento e loschi affari materni è una tra le immagini più riuscite del romanzo; la "prima" Nora, figura che aleggia quasi senza consistenza propria, a fianco di Spina “per più di vent’anni sopportando la sua tracotanza, il cinismo, i deliri di onnipotenza” fino alla tragedia; la "seconda" Nora, sposa dell'oculista, che pronuncia più volte la parola Veleno, come sinonimo di quelle pillole che assume, masticandole, per regolare il suo umore. Alle due figure femminili si aggiungono altri personaggi come il mentore Padre Alonso - morto in una "posizione scomoda", leggendo Musurgia Universalis di Athanasius Kircher, subdolamente sostituita da un testo religioso – e il badante Samir, lettore inconsapevole di Pascal, “la cui sensibilità nei confronti dell’arte è pari a quella di un elettrodomestico”. Se c'è qualcuno al mondo che riesce in tali equilibrismi, coniugando concetti talvolta ostici e letteratura, senza arretrare di un beat nella costruzione della narrazione, questa è Siri Hustvedt, scrittrice quadrata, colta, raffinata. Se incontrassi l'autore di "Veleno" gli consiglierei di leggerla, per poi “ri – leggere” - senza rinnegare i concetti di equivoco, fallimento, termitaio, veleno, ecc. - il romanzo, asciugandolo ed evitando troppe ripetizioni, in modo che la sua scrittura, attraverso i suoi pilastri filosofici e senza rinunciare a struttura e razionalità, si immerga a piene mani nella vita. (LUIGIA BENCIVENGA)
Un romanzo che si richiama apertamente alla tradizione del novecento e che ricorda per molti aspetti Thomas Bernhard. Liberato Spina, musicista e filosofo, parla con il suo medico dell’arte e del suo rapporto con un paese in cui non si riconosce più e verso il quale prova soprattutto disprezzo. Per uno scherzo del destino il medico ha sposato Nora, l’unico amore del maestro. Il veleno del titolo sono le compresse masticate da Nora, amare come un veleno, ma è soprattutto il non detto familiare, l’aura di dignità borghese fatta di buoni sentimenti in cui Nora ha vissuto e il delitto non rivelato di cui Spina si è reso colpevole nei suoi confronti. Uno stile avvolgente e curatissimo porta il lettore a perdonare la mancanza di attualità e il riproporsi di temi già ampiamente sfruttati. Come non sentirsi attratti da questo raffinato intellettuale che racconta di un mondo culturale che oggi ci sembra scomparso? La città con cui il protagonista ha un rapporto di amore ed odio è dominata da un vulcano (potrebbe essere Napoli o forse Catania). È meta di turisti provenienti da tutto il mondo che sono, secondo il protagonista, la ragione principale della sua decadenza culturale. Ed è proprio il disprezzo verso il proprio ambiente, la propria famiglia e il proprio paese che ricorda tantissimo Bernhard, anche perché dietro questo affettato disprezzo si scorge un sentimento tradito, il desiderio fortissimo d’amore che non può essere corrisposto. Ne consegue una reazione aristocratica e autolesionista, il rifiuto di eseguire ancora le proprie opere per un pubblico che non potrebbe apprezzarle e il divieto di rappresentarle: lo sdegnato rinchiudersi nel proprio eremo tipico dei romanzi di Bernhard. In definitiva, per quanto ottimamente scritto e di piacevole lettura, si tratta di un romanzo epigonale, con tutti i limiti di interesse per il lettore che ciò comporta. (VINCENZO REZZUTI)
Sezione C: Racconti Lunghi
Mattia Grigolo
Allora non chiudere gli occhi
Malinconico excursus di un rapporto in via, forse, di esaurimento o forse destinat al prosieguo nella nebbia dell'incomprensione e della noia dopo un fatto tragico che ha spezzato l'armonia di coppia e che è, probabilmente, irrecuperabile. Lettura scorrevole che accenna un'atmosfera crepuscolare. (LEANDRO LUCCHETTI)
Un uomo e una donna (lei si chiama Ofelia) stanno viaggiando, forse per ritrovarsi dopo un periodo buio del loro rapporto, ma le incomprensioni continuano e l’uomo cerca ogni pretesto per stare solo, mentre lei pare sempre più delusa. Nel frattempo lui ricorda le vacanze fatte da ragazzo con padre e madre, quando il padre era entusiasta di qualsiasi cosa che a lui e a sua madre non interessavano in alcun modo. Un racconto semplice e nello stesso tempo molto complesso, che deve tantissimo alla narrativa americana (Cheever più che Carver, a mio parere). L’autore è capace di non dire ciò che si può benissimo intuire, e questo per un narratore è un grande merito. Il dramma è appena accennato, il senso di morte di Ofelia (ma forse sarebbe stato meglio scegliere un nome meno evocativo) non ha bisogno di ulteriori spiegazioni. Splendidi alcuni particolari narrativi, come ad esempio la foto scattata con il cellulare di un gatto morto in strada che diventa sfondo del cellulare stesso, ma forse solo nell’immaginazione del protagonista (senza nome nella sua amletica insofferenza). C’è molta disincantata realtà, anche nell’idillio agreste dei fenicotteri fatti artificiosamente migrare da luoghi lontani, la cui sofferenza serve solo per compiacere i turisti. (VINCENZO REZZUTI)
Il racconto di Mattia Grigolo ha la capacità di tenere il lettore sulla pagina benché i fatti narrati non abbiano di per sé nulla di particolarmente interessante. Ottima la capacità di creare uno stato di sospensione, di attesa, come se da un momento all’altro la storia dovesse fare una virata decisa. Nella costruzione di questa sensazione rivestono un ruolo fondamentale i dialoghi asciutti, anche nella forma del “botta e risposta”; una scelta assolutamente azzeccata. Nel complesso risulta evidente una buona padronanza della scrittura. (DAVID BONANNI)
"Allora non chiudere gli occhi" è un racconto che ti trascina in modo molto naturale in viaggio con i due protagonisti e nei ricordi di lui: un'infanzia con un padre che non lasciava spazio alle sue decisioni e ai suoi desideri, una dinamica che si riflette nel rapporto con Ofelia, donna che sembra ora comportarsi con lui allo stesso modo. Con una scrittura asciutta e minimalista, l’autore sa creare un’atmosfera plasmata dai dialoghi e soprattutto dal “non detto”, lasciandoci però nel finale con un’insoddisfatta curiosità verso un dramma che non emerge mai in superficie. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il racconto di un viaggio quasi senza meta è il pretesto per far riemergere i ricordi di un padre forse troppo ingombrante. È un racconto ultraleggero che sfiora le cose appena, quasi che i due viaggiatori avessero continuamente la testa altrove. A tratti risulta fin troppo leggero in certe descrizioni abbastanza generiche, dal sapore vagamente oleografico (un borgo medievale, un menestrello gobbo). Nascosto dietro a dialoghi all’apparenza oziosi si percepisce una tensione latente, un qualcosa di irrisolto che pare sciogliersi alla fine senza mai rivelarsi. (LIVIO MILANESIO)
Lucrezia Pei E Ornella Soncini
Dal fuoco col fuoco
Racconto intensamente allegorico dal sapore mitologico con i personaggi chiamati dal ruolo familiare (Padre, Sorella) descrivono un ambiente che pare senza tempo. Tutto quanto ruota intorno ad un allevamento di api che diventa pietra di paragone, spunto di saggezza, metafora dell’esistenza. Una esistenza che però, nel caso dei due più giovani della famiglia, sente il bisogno di allontanarsi da quella arnia metaforica. La decadenza e la morte prima del padre e dell’allevamento poi li renderà liberi. L’effetto dell’uso dell’allegoria della vita delle api è straniante, ossessivo, efficace. Il filtro entomologico rende la storia vagamente distopica nella quale gli accenni alla vita comune (l’università, la spesa) prendono un sapore che ricorda un certo simbolismo alla Maeterlinck. (LIVIO MILANESIO)
Notevole capacità di creare un'atmosfera fuori del comune, tra il detto e il non detto, tra allusione e trasgressione. Forse una visione distopica immersa in quella che potrebbe essere una realtà attuale, inevitabile metafora della pandemia che ci ha colpiti. Un intento ecologico sotteso, intelligentemente alluso, condisce il racconto che, scritto in una maniera che a prima lettura potrebbe sembrare lievemente trasandata, invece lascia libero spazio all'immaginazione di chi legge, tanto che si potrebbe citare, non impropriamente, il realismo poetico. (LEANDRO LUCCHETTI)
Protagoniste di questo racconto sono le api, allevate con amore totalizzante da una famiglia composta da padre e due figli (la madre è scomparsa anni prima). Fratello e sorella sono uniti da un amore che sfiora l’incesto, ma il paradiso familiare svanisce quando le api si ammalano mortalmente a causa del caldo eccessivo. Con la loro morte e con quella del Padre finisce un mondo e forse finisce il Mondo stesso. La città dove si sono già rifugiati, infatti, è qualcosa dove le api non possono vivere, dove i fiori sono finti anche quando sono veri, e dove le persone possono solo morire e non vivere. Le arnie alla fine finiranno nel fuoco, rito igienico ma anche di purificazione. Con una scrittura scarna, quasi biblica, le autrici descrivono la fine della stessa possibilità di un mondo idilliaco, dove l’umanità viva in armonia con la natura. In questo periodo di scritture apocalittiche questa si apprezza per la capacità di fondere con pochi tratti una crisi naturale con una familiare, a testimonianza di un destino comune per tutti gli esseri viventi. (VINCENZO REZZUTI)
La storia di una famiglia presentata dalle autrici con tratti vaghi e poetici che si fanno di colpo concreti e vividi. Filo conduttore e tema portante della narrazione è la cura delle api, creature descritte nella loro “bellezza matematica e salvifica”. Un mondo agreste ma non idilliaco su cui si percepisce l’avanzare di ombre sempre più inquietanti. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
L’apicultura domina la vita di una famiglia, che si svolge tutta all’interno di un giardino, metafora di un moderno Eden. I personaggi, senza nome proprio, hanno rapporti ambigui, mai chiariti e alla fine la famiglia stessa seguirà la sorte degli sciami, segnata da una terribile epidemia. La scrittura scava, sconcerta e lascia al lettore innumerevoli domande non risposte. (MARIA SCERRATO)
Chiara Zucchellini
Oleandri rosa
Lilia vive nel terrore che “Lui” la ritrovi. Dopo essere scappata e avere trovato un nuovo posto per vivere, il timore di ciò che “Lui” potrebbe farle ancora la ossessiona. Così passa il tempo cercando di capire se in realtà non l’abbia già trovata, nascondendosi in una delle tante case della sua via, pronto a farle di nuovo del male. Nel frattempo, in una di quelle case, un altro uomo sta torturando una ragazza, Mari, che vittima di una psicosi causata dal terrore, sdoppiandosi, parla costantemente con se stessa. Lilia suona alla porta alla ricerca del proprio carnefice e non si accorge di sfiorare la tragedia di un’altra donna, vittima di un altro uomo. A causa del terrore che sta dentro di noi non ci accorgiamo del male reale che è fuori di noi. Questo potrebbe essere il senso di questo racconto, che come tanti altri testi di questi anni descrive un mondo cupo e criminogeno forse più immaginario che reale, ma che ugualmente condiziona le nostre vite. L’autrice ne scrive in modo essenziale, ma efficace. (VINCENZO REZZUTI)
L’autrice riesce a rendere perfettamente le sensazioni di paura, insicurezza e autosvalutazione vissute da una donna vittima di uno stalker molto abile nel procrastinare quasi all’infinito quella che lui considera una “vendetta”, tenendo la vittima sempre sulla corda, in un crescendo di tensione man mano che si dipana il racconto. Avvincente e coinvolgente. (STEFANIA RASCHILLÀ)
È un racconto noir, buon preludio ad una narrazione che meriterebbe maggiore lunghezza. Su rette parallele, che per poco non si intersecano, procedono i drammi di due vittime: la prima è una trentenne Lilia, che si nasconde, l’altra è Mari(nella), una bambina che viene nascosta. La scrittura è percettiva e alimenta i sensi del lettore con stimoli sensoriali seducenti, coinvolgendolo nel dramma. Buona la tensione narrativa e l’intreccio delle due storie. (MARIA SCERRATO)
"Oleandri rosa" è la storia di Lilia, a prima vista una donna indipendente e professionalmente realizzata, ma segnata nel profondo dal ricordo di un avvenimento tragico che non le permette di vivere una vita normale. A perseguitarla non è solo il paranoico timore che colui che l’aveva rapita da bambina possa tornare a insidiarla, ma anche un perenne senso di inadeguatezza che la fa sentire inadatta alla vita. Se per la sua brevità il testo non può offrirci una vicenda dettagliata né una vera caratterizzazione dei personaggi, il racconto risulta comunque coinvolgente per la sua capacità di far immedesimare il lettore in un’esistenza tormentata. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il racconto “Oleandri rosa” di Chiara Zucchellini ha una buona presa sul lettore, grazie al doppio binario narrativo (uno relativo alla protagonista Lilia, l’altro alla ragazzina Mari) che incuriosisce sin da subito e che l’autrice porta avanti bene. La sapiente gestione della suspense è sicuramente il punto di forza del racconto. (DAVID BONANNI)
Un racconto recluso. Chiuso tra il flusso di coscienza di Lilia e lunghe descrizioni, nel racconto non succede quasi nulla. Pur essendo basato su due linee narrative che sembrano intersecarsi i personaggi, appena delineati, interagiscono poco e in momenti non molto essenziali. La vicenda lascia una sensazione di un tempo fermo, senza mutamenti e di una timidezza fin troppo marcata dei personaggi. Molte sono le cose taciute tanto che è difficile empatizzare con protagonisti del racconto. (LIVIO MILANESIO)
Un racconto che tiene col fiato sospeso, la confusione iniziale via via si delinea e la storia prende forma. Protagoniste Lilia e la sua paura, freno e motore al tempo stesso. Una storia di violenza sulle donne, di quelle che non hanno un lieto fine. Una storia di come la nostra versione della realtà ci conduce alla salvezza; alla nostra, unica, individuale preservazione. (DAIANA ONGARI)
Sezione D: Racconti Brevi
Elisa Bellero
La parrucca di famiglia
Racconto dalla bella scrittura che si muove tra sogno e realtà e che riesce a evocare un’atmosfera precisa, casalinga, femminile che ha a che fare un po’ con la magia e un po’ con i concreti dispiacere della vita. Il tema dei capelli e della loro perdita è originale e anche la struttura del racconto. (GIULIA CAMINITO)
In un’atmosfera che ricorda quelle del realismo magico, le vite di tre donne si “intrecciano” attraverso il rituale della pettinatura. I capelli sono metafora dell’essenza femminile e delle sue radici (“ sentono il legame, lo stesso sangue”). Scrittura sorvegliata, che fluisce senza intoppi verso il finale. (CARLO NELLO CECCARELLI)
Come in un sogno dentro a un sogno dentro a un altro sogno, La parrucca di famiglia intreccia visioni oniriche, ricordi, atti mancati e profezie per costruire un racconto transgenerazionale attorno ai temi della malattia, dell’eredità e del confine che separa i vivi dai morti. Il contesto, classico, del tinello è turbato da un'atmosfera straniante, sostenuta da una lingua sobria, equilibrata, mai patetica per quanto compromessa con la profondità, e tanto precisa nella descrizione dei movimenti da somigliare a una partitura teatrale. (ALESSANDRA SERENA CAPPELLETTI)
La morte, l’affetto, le tradizioni e il legame familiare: tutti questi elementi si intrecciano in un racconto surreale ma al contempo profondamente vicino alla realtà. Con "La parrucca di famiglia", Elisa Bellero ci dona un’originale visione del dramma di una malattia ereditaria raccontata con una leggerezza che sa commuovere. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Toccante vicenda famigliare e intima che si dipana tra generazioni di donne. La parrucca è il correlativo oggettivo di un male a cui, per predisposizione genetica, pare siano condannate le figure femminili. Accorato, toccante. (ANGELA FLORI)
Destinata a morire di una malattia ereditaria che esordisce con la perdita dei capelli, la narratrice incontra la nonna e la zia morte, dopo avere scoperto che anche la madre seguirà lo stesso destino. Insieme doneranno i propri capelli per creare una parrucca per la madre. È il destino comune che crea questa solidarietà e che le riunisce davanti a una tazza di caffè, anche dopo la morte. Un racconto familiare e fatalista che si svolge in un ambito unicamente femminile, dove gli uomini non vengono nemmeno nominati, quasi che la continuità familiare avvenga per partenogenesi. Con uno stile asciutto ed efficace, l’autrice riesce a rendere questo mondo credibile. (VINCENZO REZZUTI)
Un buon racconto, portato avanti senza intoppi, con scrittura attenta e capace di dar vita alla giusta atmosfera. (DAVID BONANNI)
Un bel racconto che fa immedesimare il lettore nella vita familiare della protagonista. Belli anche i toni usati e la capacità di narrare la disperazione, la tristezza e l’abbandono di quel calore che si prova tra gli affetti più cari. (PRIMULA GALANTUCCI)
Mattia Grigolo
Eravamo
Narrativamente mi sembra potente e intelligente, nonché una ottima traccia da cui partire per una narrazione più lunga che dia più spazio al disvelamento della tragedia. Nella forma del racconto breve mi pare tutte le intuizioni non si esprimano del tutto, resta la voglia di entrare più nel dettaglio perché gli elementi sono forti e numerosi. Forse troppi dialoghi, però è sicuramente di qualità. (GIULIA CAMINITO)
Un racconto “fresco” che cattura il lettore sin dalle prime battute e non lo lascia più, conducendolo dritto dritto al finale senza sbandamenti, con un susseguirsi di dialoghi efficaci e privi di sbavature. (DAVID BONANNI)
Ofelia frequenta un gruppo di sedicenti aspiranti suicidi, perché avendo bisogno della presenza di altri, ma non riuscendo nel contempo più a sopportarla, preferisce stare con chi si sta preparando a non vivere. Nel frattempo parla con il fantasma del padre e con quello del cane Falco, morti per il crollo di un ponte. Le uniche altre due persone con cui riesce a parlare sono la psicologa, che sembra non credere alle sue intenzioni di suicidio, e Jonathan, uno degli aspiranti suicidi, con il quale, peraltro, sembra ugualmente impossibile comunicare. L’impossibilità di parlare della propria disperazione, che fa preferire il dialogo con le proiezioni del proprio inconsolabile lutto anziché con persone vive, è il senso di questo racconto. Essenziale nel suo basarsi unicamente su dialoghi, si legge d’un fiato e lascia un vago senso di attonito sgomento, un po’ come certe pagine di cosmico pessimismo di Cormac McCarthy. (VINCENZO REZZUTI)
In una forma narrativa intenzionalmente spoglia e molto diretta, una spettacolare riflessione sulla perdita e la solitudine. Con i suoi dialoghi costruiti efficacemente e il continuo interscambio tra il mondo interiore della protagonista e quello reale, il testo sa coniugare abilmente tristezza ed ironia, riuscendo a farci amare in poche pagine l’umanità dei suoi personaggi. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
L’autore di "Eravamo" compie un piccolo miracolo: rubare al cinema – o meglio, alla televisione, o meglio ancora, alle serie TV – i suoi trucchi, e farne qualcosa che sulla pagina convince, e a tratti quasi commuove. La scrittura è sostenuta da un’intenzione sincera, da un certo istinto autoriale capace di temperare il tenero e il grottesco, e di essere a suo modo profondo, senza perdere mai la freschezza. (ALESSANDRA SERENA CAPPELLETTI)
Racconto emozionante sul senso di solitudine che nasce a seguito della perdita di persone care. Bella l’idea di avere dato corpo, spessore, parola alle anime del padre scomparso nel crollo del ponte e del cane, che era in macchina con lui. (ANGELA FLORI)
Un racconto “fresco” che cattura il lettore sin dalle prime battute e non lo lascia più, conducendolo dritto dritto al finale senza sbandamenti, con un susseguirsi di dialoghi efficaci e privi di sbavature. (DAVID BONANNI)
Il racconto fluidifica la morte seguendo un ritmo narrativo asciutto e ben scandito. Ofelia, la protagonista, mostra tutta la sua umanità attraverso dialoghi che in realtà sono monologhi dall’inizio alla fine, scavalcando la banalità. Ben scritto, l’autore merita di aver dato al tema del suicidio una degna e particolare importanza. (FEDERICA CAPODURI)
Ci troviamo di fronte a un racconto che parla di morte ma esalta la vita, la paura della perdita e la solitudine. In poche parole, messe su carta, l'autore riesce a illustrare lo struggimento di una catastrofe e l'incredulità del non sapere in che modo la vita possa continuare com'era prima che tutto accadesse. Le conseguenze che ne derivano sono enormi e bruciano tragicamente nel cuore di tutti. Molti si chiedono cosa vuol dire morire e cosa succede quando una persona non c'è più. La morte è un liberarsi dai cattivi pensieri, un atto spontaneo o una lunga preparazione premeditata? Coloro che non ci sono più e che ci vengono portati via lasciano un enorme vuoto da colmare e chi resta può soltanto essere uno spettatore, sopravvissuto. (PRIMULA GALANTUCCI)
Raffaele Palumbo
Idrofono
Il racconto "Idrofono" conduce il lettore a guardare la realtà con gli occhi di un’”osservatrice neutra e distaccata” che incarna bene la disperata ricerca di emozioni della società contemporanea spesso assuefatta di esperienze. La protagonista vive una condizione di immobilità in cui va continuamente a caccia di cambiamenti. E tuttavia, anche quando questi accadono, non si dimostra in grado di accoglierli. Nel complesso, un racconto piacevole che sa come trasmettere il proprio messaggio non scontato tenendo viva l’attenzione dei lettori. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Racconto ben riuscito, che sollecita spunti di riflessione sui rapporti tra individui, sui meccanismi che ci attraggono o ci respingono. Punto forte la forma puntuale e controllata. (ANGELA FLORI)
Un pizzico di originalità in più nel tratteggio esistenziale di una “lei” moderna e disincantata, sessualmente disinibita, frequentatrice dei locali trendy e del mondo aggressivo dei broker rampanti. Ma i pescecani ce li ha anche sopra la testa, quelli veri che popolano l'acquario in cui lavora in attesa della sacrosanta pausa del sabato sera. (LEANDRO LUCCHETTI)
In "Idrofono" ciò che convince è soprattutto la voce: spietata come l’oggetto del suo interesse, distante come il suo punto di osservazione, ed esatta, come un report tecnico. Un narratore dietro al plexiglass, che maneggia con freddezza una materia altrettanto fredda. La struttura del racconto – con certe piste, sembra, non del tutto sviluppate – fa pensare a un testo che nasconde, o chiede, un seguito. (ALESSANDRA SERENA CAPPELLETTI)
La protagonista del racconto è una giovane ricercatrice che sta conducendo una ricerca sugli squali in un acquario di New York. Passa tutte le notti dei giorni feriali a guardarne i movimenti, mentre nella vasca vengono riprodotti i suoni di una fossa oceanica. Nei fine settimana esce con ricchi broker di Wall Steeet, una cena e poi una notte di sesso, che preferibilmente non si deve ripetere, perché la ripetizione uccide il desiderio. Un racconto che descrive un mondo anafettivo, caratterizzato dalla preminenza del denaro e dalla ricerca del successo. L’autore è molto efficace nel rendere il senso di solitudine che ne deriva, e non è azzardato, a mio parere, ipotizzare che si sia in parte ispirato a Houellebecq. (VINCENZO REZZUTI)
Analitico e sistematico, il testo rispecchia la storia, curiosa, della sua protagonista. L’autore narra molto sapientemente il vuoto che si crea nella ripetitività – quella imposta – di un lavoro, quasi tracciando nel lettore una sorta di inquieto flashback cinefilo da Arancia Meccanica. La sessualità è usata a tratti – quasi a celare l’attenzione ma su cui si poggia lo scritto – ed è anch’essa parte di quel vuoto. Si mostra la similitudine tra l’intreccio pieno della sfera sessuale (qui quasi cannibale) e quello piatto e ritmico di una quotidianità insofferente. (FEDERICA CAPODURI)
Il racconto è tutto incentrato sui pensieri della voce narrante che in questo caso è anche quella della protagonista. Nella descrizione della sua vita quotidiana a volte assume dei toni claustrofobici e per alcuni versi, a mio avviso, la stessa diventa volgarmente estremizzata. Per certi aspetti sembra quasi che la protagonista viva una vita fatta di noia, di luoghi comuni, nella quale tutto è niente e niente ha significato. Ci si trova di fronte ad una vita materiale e distopica, tutto si finalizza all’ottenimento di un qualcosa che non va al di là del proprio soddisfacimento personale, che può durare qualche ora o al massimo una sera. (PRIMULA GALANTUCCI)
Nicole Trevisan
Le fabbricanti di angeli
Interessante esposizione narrativa che attinge ad un tempo che pare ormai fuori dalla Storia estrapolato in un contesto ambientale arcaico, quasi “barbarico”, come del resto letterariamente si addice quando si narrano storie di atmosfera balcanica. Riemerge dalle nebbie del passato la Prima Guerra Mondiale, il dramma dei soldati vinti, la miseria, la fame ma soprattutto l'autrice narra della solitudine delle donne costrette a far fronte comune contro la violenza degli uomini. All'interno della loro misteriosa complicità si aggira una figlia in cerca di amore materno che deve percorrere strade che non sempre capisce, fino a quando, però, gli avvenimenti, fatali come in una tragedia greca, la costringono a prendere atto, come una vittima sacrificale, che sono gli uomini ad arrecare sempre dolore. (LEANDRO LUCCHETTI)
Duro, crudo, pittoresco a tratti grottesco, ma molto molto realistico. Descrizioni davvero “artistiche”, leggendole pare di riuscire a coglierne le sinuosità come stessi dipingendole su tela. Immagini forti ed evocative. Dietro questo mancato pudore e violenza liberalizzata si celano una grande sensibilità ed un tatto non facilmente percepibili. (DAIANA ONGARI)
In un paesino ungherese svuotato e sconvolto a causa della guerra, la giovane protagonista vive la sua storia fatta di lutti, ombre di credenze arcaiche, inganni e illusioni. Una parabola sul diventare adulti in un mondo oscuro, raccontata con un linguaggio a tratti enigmatico. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il racconto riprende una vicenda storica, quella delle “Fabbricanti di angeli” di Nagyrév, in Ungheria. Alla fine della prima guerra mondiale, una serie infinita di morti nella città di Nagyrev e in quelle circostanti, principalmente di reduci, suscitò i sospetti delle autorità, che infine riuscirono a risalire a Zsuzsanna Fazekas, infermiera e ostetrica, e a diverse mogli di reduci che intendevano liberarsi dei loro mariti, che erano state obbligate a sposare e che ora non volevano più. Nel racconto viene resa evidente la parte femminile della guerra, quella di chi attende, nella fame e nella miseria, che i soldati tornino a casa, scoprendo per contro il sapore della libertà e che “il dolore lo portano gli uomini”. Questa vicenda nera, e nel contempo di un femminismo estremo e ante litteram, viene ripresa dall’autrice in un racconto complesso e non del tutto risolto, a mio parere meritevole di ulteriore revisione che potrebbe renderlo notevole. (VINCENZO REZZUTI)
Racconto dai temi forti, impegnato e impegnativo, si intuisce il lavoro gravoso che deve aver richiesto all’autrice. La scrittura è buona anche se non mancano passaggi un po’ oscuri, di non immediata comprensione. (DAVID BONANNI)
A tratti poetica, a tratti nebulosa nella sua traccia, la storia avanza con sempre addosso il grigiore e la miseria della guerra. I suoi protagonisti la rendono attuale, nonostante la cronologia dei primi del Novecento sia resa nota. Alcuni punti poco chiari, ma nel complesso una buona narrazione, scritta con lessico preciso e acuto. (FEDERICA CAPODURI)
Il racconto ricalca uno spaccato di guerra, uccisioni, violenze e morte. Vengono ben descritti gli stenti, uno status nel quale ci si riduce a doversi comportare in modi non sempre apprezzabili, a prostituirsi e alcune volte anche a uccidere. Una ragazza che è obbligata a diventare adulta e donna all’improvviso e a subire violenze fisiche e psicologiche contro la propria volontà. Il racconto illustra la situazione umana posta sotto assedio e la capacità di trovare la forza per riuscire a sopportare tutto pur di sopravvivere. (PRIMULA GALANTUCCI)
Anna De Rosa
L'imprevisto
Un inno all’amicizia, un racconto fresco e frizzante come il vento atlantico che fa volare il surf sulle onde di Corralejo, dove Anna De Rosa ambienta l’avventura di quattro ragazze volate fino alle Canarie per festeggiare un compleanno. L’incipit fulminante, cinematografico (“Era nera come la pece la cera che l’abuela mi stava spalmando tra le gambe”) ci proietta sulla scena di una depilazione integrale, metafora di una spoliazione affettiva – la fine di una relazione virtuale – che provoca dolore ma prelude all’accoglimento del nuovo. Bonario deus ex-machina, Nestor, il locatore dell’appartamento dove alloggiano le ragazze: sarà grazie a lui, anche se non per sua volontà, che l’imprevisto potrà manifestarsi nei panni di un autostoppista e cambiare il corso degli eventi. Nonostante (o, forse, grazie a) qualche svista clamorosa e tuttavia innocente, proprio come le ragazze, il racconto cattura dalla prima all’ultima parola, in un susseguirsi di efficaci e realistiche descrizioni del paesaggio esteriore e interiore, dialoghi gestiti con scioltezza e riflessioni semiserie sulla natura umana. Una lettura scorrevole e piacevolissima, anche grazie al lessico accurato e mai banale. (VALERIA MICALE)
Racconto ben riuscito. La trama suggerisce riflessioni tra il mondo virtuale e quello reale delle relazioni umane. La protagonista, voce narrante e portatrice di focalizzazione, attraversa un’avventura che si potrebbe definire di formazione. (ANGELA FLORI)
La protagonista del racconto è in vacanza a Fuerteventura con delle amiche. Delusa dall’ultimo amore “virtuale”, in astinenza sessuale suo malgrado, incontra un bellissimo ragazzo. Racconto che si salva solo grazie a quel po’ di freschezza e di immediatezza che lo fanno sembrare autentico, quasi come pagine di un diario. La descrizione di una realtà forse un po’ vacua, assolutamente credibile, funziona fino a un certo punto a causa di uno stile sincero ma poco curato. (VINCENZO REZZUTI)
Il racconto descrive le sensazioni provate in un viaggio a Fuerteventura nel quale una donna in cerca di compagnia accetta di dare un passaggio a uno sconosciuto che poi fortunatamente si rivela una buona persona e forse l’amore. Il racconto si svela velocemente e lineare, la descrizione è semplice e discretamente struttturata. (PRIMULA GALANTUCCI)
Giacomo Cavaliere
Tsunami
L’idea di far corrispondere la fine di una relazione a una calamità naturale non è originalissima, ma il racconto è ben sviluppato e funziona. I personaggi sono caratterizzati in maniera credibile e così anche i dialoghi mi sono sembrati di buon impatto. Forse cambierei il titolo per non far capire da un certo momento in poi cosa sta per sopraggiungere nel finale che ribalta la scena. (GIULIA CAMINITO)
"Tsunami" è un punto di vista sulla fine di una relazione che si presenta all’inizio come se fosse già naufragata, ma che appare in qualche modo ancora tenuta in vita da una forza irrazionale e indomabile. La calamità a cui fa riferimento il titolo si abbatte sui personaggi e sull’umanità nel suo complesso ponendo ogni cosa in una nuova prospettiva. Un racconto scritto in una forma non limpida che si presta forse a più interpretazioni, ma in cui spicca in particolare la descrizione del maremoto, momento in cui il testo ci mostra la sua maggiore potenza espressiva. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
I ricordi, un’ultima vacanza “diversa”, quasi a celebrare la fine di un amore… prima che si dissolva definitivamente. Un paese esotico, dove non sembra neppure di essere in inverno, gesti inusuali. L’evolversi ritmato di pensieri ed eventi ci accompagna passo passo, preludendo all’inevitabile epilogo. Ma la fine è molto più tremenda e assurda di ciò che potremmo lontanamente immaginare, travolge persone e cose, come briciole. Accurate la ricerca della parola e la descrizione dei sentimenti, che rendono il senso di ineluttabilità degli eventi. Stupenda la frase conclusiva: “Distruggendo tutto quello che può ancora essere distrutto”. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Potente la parte finale del racconto, con la scena devastatrice dello Tsunami. Buona anche la spannung che fa arrivare il lettore al punto di massima tensione del racconto. Meno efficaci i dialoghi a cui è affidato, nella prima parte, il compito di raccontare il rapporto di coppia dei due protagonisti. (ANGELA FLORI)
Una coppia in crisi va in un resort in Sri-Lanka durante le feste di fine anno per cercare di salvare il proprio rapporto. L’atmosfera di finta ricchezza non li aiuta, ma un evento improvviso porrà termine alle loro futili angosce. Un racconto psicologico un po’ scontato, crisi di coppia e incomunicabilità già viste e riviste migliaia di volte, senza molto di originale. Il racconto migliora verso la fine, la descrizione dello tsunami che spazza via il finto mondo del resort è efficace, con i due che si guardano per un attimo, senza potersi più dire nulla. (VINCENZO REZZUTI)
L’inizio è lento, buona la descrizione della tempesta che all’improvviso arriva devastando e portandosi via qualsiasi cosa trovi sul proprio cammino. Il finale è spiccio. Gli stati d’animo sono ben descritti e l’autore ha la capacità di far crescere la tensione nel momento in cui il lettore comprende che sta per accadere una catastrofe, nella quale tutto può essere perduto in pochi istanti. (PRIMULA GALANTUCCI)
Sezione E: Poesia
Eleonora Villa
Agosto
Una poesia che incastra bene le immagini, che hanno una loro forza narrativa ed emotiva che restituisce il giusto mistero di cosa ci sia dietro, quale sia il tu a cui si parla, quel tu che parte del noi. Agosto è un mese terribile, credo, per chi ha sensibilità e soffre il mostrarsi dei corpi, le città vuote, l’afa, la voglia di vacanze collettiva e il rituale delle spiagge e del divertimento standard. (GIULIA CAMINITO)
Il potere della parola che resta cristallina nel tempo e fissa i ricordi in maniera indelebile, anche dopo il disincanto, una lirica che è balsamo comunicativo e che è rimedio al tempo che sbianca, attutisce, rompe allontana ogni segno e gesto che crea dialogo. Una poesia che tende ragione alla forza dell'interpretazione a due, di due voci sincrone nella sincronicità del resto del mondo che si riposa, che si ripristina, che cambia, che è soggetto a lavori in corso per svelare la realtà propria e personale intima ma non solipsistica. Due voci spezzano la verità o ne creano una alternativa e personale e in controluce, come da fare una buona poetica. (BARBARA GRUBISSA)
Dizione sorvegliata e incisiva; regge bene la prova della lettura ad alta voce, riuscendo a catturare il lettore. (GIUSEPPE FEOLA)
“Agosto” è già dal titolo e dai primi versi un’affascinante sinestesia, nella quale tuttavia l’afa estiva non offusca la nitidezza delle immagini offerte, delineate dall’autrice con lessico ricercato e l’accuratezza di inquadrature quasi cinematografiche. La misericordia che è il “tu” del dialogo poetico sembra colare dal primo verso lungo tutto il componimento, in una progressiva visualizzazione e riscoperta del duale, ancora possibile, se “Agosto è tirare una riga sopra”. (VALENTINA COTTINI)
Nella poesia “Agosto”, Eleonora Villa descrive con particolare pathos la mancanza di una persona cara che si vorrebbe ardentemente e comunque al proprio fianco. Un’assenza fisica talmente condizionante che sembra farsi, in prima istanza, concreta presenza salvifica in un paesaggio dai tratti cadenti e solitari. Una concreta presenza che però con l’evolversi del pensiero diventa insoddisfazione e frustrazione: i ricordi dei momenti felici, quindi, perdono ogni colore e quelli del parlato diventano prima frasi pronunciate ossessivamente e poi semplici e muti elementi del paesaggio: “il pappagallo che al lentisco cede la tua parola”. La poetessa, infine, inesorabilmente, cancellerà ogni ricordo felice, ogni assenza frustrante e ogni presenza, riducendosi a dialogare a mezza voce con dei simulacri sbiaditi e vuoti. (FERNANDO DELLA POSTA)
Una città estiva, deserta, delineata con pochi tratti, fa da sfondo alla voce dell'io poetico, che sembra interrogarsi sul senso più autentico dei rapporti umani. (SERGIO PASQUANDREA)
Lirica malinconica e sospesa che si fa immaginare in una duplice dimensione: fotograficamente immobile, seppur attiva anche sul piano fonico, e costantemente in divenire, dove dominano il senso di vuoto e le tracce evidenti del tempo che passa e che trascina quasi tutto via con sé. (DAVIDE TOFFOLI)
Pare di sentire l’eco della “sterminata domenica” di Vittorio Sereni, in questi versi di Eleonora Villa. Una città desolata, un bar chiuso per lavori, insegne con la A rotta e in sottofondo un dialogo tra sordi che non riescono a sentire la voce dell’altro. Se Vittorio Sereni non amava il suo tempo, l’autrice sembra contemplare un vuoto estatico, l’impasse dei sentimenti curiosamente in sintonia con il momento dell’anno in cui i tavolini restano vuoti e si fanno i conti con sé stessi, davanti all’altro assente. (VINCENZO REZZUTI)
Oana Rodica Alexandrescu
T di tată
Con raffinatezza nello stile e nelle scelte lessicali, l’autrice riesce nella creazione di un gioco di confidenza con il lettore o la lettrice, svelandosi lentamente alla sua comprensione. I versi si fanno via via più intimi e l’essere figlia si delinea come un’esperienza assieme personalissima e universale. I “libri contabili della Mancanza” sono un’immagine di altissima intensità emotiva, che chiude una penultima strofa indimenticabile. (VALENTINA COTTINI)
Nella poesia “T di Tata”, Oana Rodica Alexandrescu trascrive nel linguaggio poetico, con grande efficacia e delicatezza, la fenomenologia del relazionarsi di un figlio all’abbandono in tenera età da parte del padre. Memoria e mancanza si mescolano nel testo, così come il tentativo del figlio di dare un senso al gesto del padre che fallisce miseramente. Tra le altre cose, l’utilizzo di una terminologia afferente all’ambito economico rende particolarmente bene il veleno della mancanza nella vita del figlio, ovvero il vuoto scavato dal gesto del padre, un dolore che invece di alleviarsi col tempo si aggrava, un vuoto impossibile da colmare su qualsiasi libro contabile. (FERNANDO DELLA POSTA)
La paternità letteraria è responsabilità su espressioni, forme, significati e significanti, sull'aggancio con poetiche altrui, sull'afflato con risonanze altre. Con stile evocativo rivendica la propria autorialità e la propria cultura ricercando il significato delle proprie radici genetiche, interrogandosi sul senso della propria e altrui identità in relazione a una più o meno vissuta genitorialità. Genitorialità che è creazione perenne. (BARBARA GRUBISSA)
L’io viene da un noi, una pluralità genitoriale che può scindersi e causare all’io l’ingiusto inconscio addebito della mancanza, che si fa perdita, che graffia col sapore dolce di una lingua perduta (tată) dolorosamente decifrabile. (LUIGI IANZANO)
L'abbandono da parte della figura paterna è affronto in questo testo con un discorso ricco di ellissi e di scarti semantici, che utilizza un linguaggio volutamente freddo, attinto dalla linguistica (perduta lingua, parola tabù, semiotica dei gesti) o dall'economia (l'interesse maturato, debito, registri della Mancanza, bene primario). La poesia attinge forza proprio dal contrasto fra questo apparente distacco e il senso di smarrimento della figlia, che si interroga sul senso di quella mancanza. (SERGIO PASQUANDREA)
La poesia affronta un tema profondo e di attualità in modo delicato, senza cedere alla retorica; la dizione è ancora molto legata a schemi tipici della seconda metà del ‘900. (GIUSEPPE FEOLA)
Testo foneticamente molto incisivo che esalta le allitterazioni presenti schiacciandole sulla funzione di spot puntato sulla parola portante che le da' il titolo e attorno alla quale si sviluppa la profonda riflessione contenutistica di questa poesia. (DAVIDE TOFFOLI)
Il ricordo di un abbandono durato una vita intera, che ha rimosso dal pensiero la parola della lingua originaria che indica il padre: tatà. Un destino inevitabile per un pensiero che vale per qualsiasi privazione: il non avere avuto un padre è privo di importanza? Nessuno può saperlo. Resta la mano che ricama attorno al vuoto un possibile che non si è realizzato, una vita che non è stata vissuta, scrutando da lontano gli altri padri, per cercare di capire la loro importanza. Si resta comunque iscritti nel libro della Mancanza, per tutta la vita. L’autrice riesce con grande efficacia a fissare uno stato dell’esistenza, il sentimento della privazione di qualcosa che non si conoscerà mai. (VINCENZO REZZUTI)
Stefano Solaro
Otto tipi di insetti
Nella poesia “Otto tipi di insetti”, Stefano Solaro ci dona una riuscitissima critica al regime ideologico imperante, in special modo pensando al profondo contrasto contemporaneo tra essere e apparire e al sovvertimento delle priorità. Il poeta impartisce “ripetizioni fuori al freddo”, ovvero fuori dall’edificio naturalmente deputato alle lezioni e alla diffusione della conoscenza invaso dai ratti, mentre decide di rinunciare, o forse meglio dire “disertare”, la palestra e l’uso delle famigerate “proteine” spesso abbinate agli allenamenti. Oltre a ciò, il poeta diserta gli svaghi che lo aiuterebbero a dormire tranquillo, essendosi accorto che proprio sotto il suo naso (nella poesia “sotto al” suo “letto”), e per estensione sotto quello di chiunque altro, sta nascendo e crescendo qualcosa di orribile che se non fermato in tempo ci fagociterà tutti, ovvero gli otto tipi di insetti del titolo della poesia. Ironia della sorte, a lavoro, il suo apparire psico-fisicamente preoccupato gli vale l’elogio dei colleghi: uno per il dimagrimento e due per una sorta di aura dimaggiore tensione acquisita, di maggiore carica e prontezza. (FERNANDO DELLA POSTA)
Versi che danno ragione all'alienazione, all'affettività, alla discrepanza che crea la malattia, come anche ogni altra esperienza, come pure ogni convalescenza. Mentre un io in fase di recupero abbandona il giaciglio si cui si ristora, in assenza lavorano otto insetti, otto tarli, otto elementi inconsci. Una lirica chiara, narrativa, limpida, disincantata, che coglie la visione divaricata e sempre parziale che è quella altrui e gli elementi che covano nell'ombra sconosciuti anche all'io narrante. Una poesia lirica con un fraseggio quasi narrativo. (BARBARA GRUBISSA)
Se la gioia è lucida e manifesta, il dolore è spesso opaco, inafferrabile, così legato per natura all’individualità del sentire. L’autore sembra raccontare in questi versi l’impossibilità comunicativa che spesso si interpone tra chi sperimenta un malessere e chi osserva e tenta di comprendere da fuori. E in un consapevole utilizzo del non detto, le metafore e le immagini scivolano una dentro l’altra, sfumando in una sorta di stato di sogno. (VALENTINA COTTINI)
Una poesia in cui la narratività è spezzata in immagini apparentemente irrelate l'una con l'altra, delle quali sta al lettore deve ricostruire i nessi. (SERGIO PASQUANDREA)
Buon dominio della parola e del ritmo. (GIUSEPPE FEOLA)
Poesia intima ed intensa, costruito sul fitto ricorrere delle dentali, che sembrerebbero evocare il battito dei denti dovuto al freddo o il picchiettare delle dita sui tasti nell'atto di lasciare una testimonianza scritta di quanto vissuto. (DAVIDE TOFFOLI)
Poesia che sceglie un tono colloquiale, che ricorda alcune poesie dell’ultimo Valerio Magrelli. Gli otto tipi di insetti, i ratti ovunque, ma un ottimismo inevitabile e quasi ipocrita degli amici che ti dicono “ti trovo bene”. Per valutare bene l’autore occorrerebbe leggere una raccolta dove questi momenti qualsiasi potrebbero trovare nell’insieme maggior senso. (VINCENZO REZZUTI)