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Premio Letterario Zeno - XI Edizione
Benvenuti su Zeno, progetto legato all’Associazione omonima, volta a promuovere la lettura, la scrittura e la cultura in generale.
Primo obiettivo del progetto è quello di estendere un concorso letterario di prosa e poesia edita e inedita.
Il Premio ha già avuto tra i giurati Simona Vinci (autrice per Einaudi, Rizzoli e vincitrice del Premio Campiello 2016), Aldo Nove (scrittore e poeta che ha pubblicato per Castelvecchi, Einaudi, Laterza, Bompiani), Diego De Silva (giornalista, sceneggiatore e scrittore presso Einaudi, Mondadori, Rizzoli), Giuseppe Culicchia (scrittore, traduttore e saggista presso Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Laterza, Garzanti), Emidio Clementi (Rizzoli, Laterza, Playground, Fazi, DeriveApprodi), Andrea Tarabbia (scrittore per Mondadori, Bollati Boringhieri, Transeuropa, Aracne, Il Saggiatore e vincitore del Premio Campiello 2019), Carola Susani (Feltrinelli, Minimum Fax, Giunti, Gaffi), Giulia Caminito (Giunti, Bompiani).
La giuria della XI edizione del Premio Letterario Zeno coordinata da Emanuele Bukne (Edizioni Esi, Jota Project) e da Antonio Russo De Vivo (editor) è stata composta da Davide Orecchio (Bompiani, Gaffi, il Saggiatore), Giuseppe Feola (ricercatore Scuola Normale Superiore di Pisa), Gian Marco Griffi, Paolo Casadio, Luigi Esposito Giardino, Renato Nicassio, Marco Scarlatti, Michele Frisia, Natalia Guerrieri (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Romanzi), Mattia Grigolo, Elisa Bellero, Carlo Nello Ceccarelli, Angela Flori, Valeria Micale, Livio Milanesio, Alessandra Serena Cappelletti (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Racconti), Eleonora Villa, Sergio Pasquandrea, Luigi Ianzano, Fernando Della Posta, Valentina Cottini (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Poesia), Giuseppe Feola, Marcello Greco, Luigi Di Carluccio (Jota Project). Hanno collaborato inoltre all'edizione 2023: Isabella Becherucci, David Bonanni, Alessandro Pasini, Federica Capoduri, Pasquale Braschi, Daiana Ongari, Annalisa Lucini, Antonio Corona, Stefania Raschillà, Laura Moreni, Giovanna Riccardo, Manola Frediani, Maria Scerrato, Davide Toffoli, Maria Rosaria Pugliese, Marcello Di Gianni.
Il Giurato d'Onore
Davide Orecchio
È nato nel 1969 a Roma, dove vive e lavora. Il suo ultimo romanzo è Storia aperta (Bompiani 2021). Sempre del 2021 è L’isola di Kalief (Orecchio Acerbo). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo Il regno dei fossili (il Saggiatore); del 2017 sono le storie e racconti sulla rivoluzione russa intitolate Mio padre la rivoluzione (minimum fax), classificatosi nel 2018 nella cinquina del Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati e finalista al Premio Napoli e al Premio Bergamo. Nel 2012 ha pubblicato Città distrutte. Sei biografie infedeli (Gaffi) rieditato nel 2018 da il Saggiatore, una raccolta di racconti che ha vinto il premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012, il premio Volponi 2012 ed è arrivata finalista al premio Napoli 2012. Del 2014 è il romanzo: Stati di grazia, finalista al Premio Bergamo. Suoi articoli, racconti e saggi sono usciti su varie riviste.
Vincitori e Finalisti
Sezione A: Romanzi Editi
Davide Rigiani
Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino (minimum fax)
Bisognerà aggiornare l’adagio tolstojano: “Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo, e poi ci sono i Ghiringhelli”. È nata infatti una nuova famiglia letteraria, ed è quella strampalata e poetica raccontata in questo libro. In apparenza un “semplice” Bildungsroman, che va grossomodo da estate a estate, seguendo un anno scolastico del più piccolo dei Ghiringhelli, il Tullio. Ma l’autore gli affianca una deliziosa creatura di fantasia in una prosa fresca e abbondante di invenzioni. Un testo per tutti, giovani e adulti. Ma certo, se un ragazzino non si innamora dei libri leggendolo, non ci resta che spegnere le luci, chiudere porte e finestre e andarcene tutti via. (DAVIDE ORECCHIO)
Ne Il Tullio e l'eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticino si ride, ma la scelta di Davide Rigiani è più tesa verso il surreale e l'onirico: tuttavia la lingua si impadronisce della scena; un ambiente linguistico viene abilmente creato da Rigiani, che sfrutta alcune delle infinite possibilità di plasmare l'italiano per costruire un suo italiano, ricco e reso vivissimo dall'utilizzo di termini propri della Svizzera italiana oppure da neologismi che creano uno sfasamento tra realismo e surrealismo, in un continuo intreccio tra il piano immediato e quello più metaforico. (GIAN MARCO GRIFFI)
Tullio è un bambino che vive nel Canton Ticino, in una casa con giardino e tanti gatti. Suo padre si diverte a chiamarli usando congiunzioni o avverbi (“Insieme”, “Quindi”, “Mentre”, ecc.), creando così imprevedibili giochi di parole. Quando Tullio trova ciò che sembra un bruco geometra nell’insalata, lo porta in giardino dove, nella notte, cresce fino a diventare grande come un cane. Come dirà poi la dottoressa Kohlkapfer, specializzata in fantaveterinaria, non si tratta di un bruco geometra, ma di un rarissimo esemplare di eolao. L’autore crea un mondo fantastico a partire dallo sguardo di un bambino. Siamo nella zona di confine tra realtà e immaginazione, dove la verità non è stabilita scientificamente, ma dipende da un sistema in continuo movimento che muta utilizzando le infinite possibilità del linguaggio. L’enorme eolao esiste in una dimensione che esce dai normali confini del fiabesco, nutrendosi delle percezioni dilatate dell’infanzia e del fascino dei bambini verso tutto ciò che contraddice la normalità degli adulti. Il pacifico eolao è un gigante vischioso e bavoso che porta nell’ordinatissima casa svizzera l’anarchia sognata da tutti i bambini. In perenne mutazione, sparge orecchie a trombetta e occhi ovunque. Esilarante la rappresentazione del mondo dei grandi, a partire dalla scuola, con ritratti di insegnanti tanto comici quanto nella sostanza realistici. Qui viene fuori il meglio dell’umorismo dell’autore, capace di fare ridere senza ricorrere a facili stereotipi e a battute scontate. Anche gli altri lavori dei grandi, come quello ad esempio della mamma Ghiringhelli, appaiono altrettanto ridicoli, con il proliferare di una gerarchia di capi e capetti che affidano ogni tipo di incombenza a sottoposti che ricordano un po’ le segretariette della “Vita agra” di Bianciardi. Non viene risparmiato nemmeno l’ambito familiare, e se padre e madre Ghiringhelli, con tutti i loro simpaticissimi difetti, sono descritti attraverso l’ottica affettiva del figlio, gli altri parenti sono la dimostrazione che crescere non conviene, a partire dalla zia Domenica i cui discorsi sono pieni di nulla. Per Tullio gli adulti vivono in un altro mondo e non si accorgono mai di nulla di importante, essendo troppo occupati in questioni insensate come i “girondi stornati”. L’autore, manipolando il linguaggio e facendone la materia prima dell’immaginazione, vuole farci capire che tutto nasce da lì, che nessuna favola o storia fantastica è possibile se non come alterazione della rete dei normali significati delle parole. Inevitabile il confronto con Rodari, e in particolare con ciò che scrive in “Grammatica della fantasia”, di cui l’autore sembra applicare, a partire dal “Sasso nello stagno”, alcuni principi fondamentali. (VINCENZO REZZUTI)
Per la dirompente volontà di inserire in letteratura un fantastico nuovo, utile per descrivere l’oggi con categorie differenti dal solito. Attraverso la cornice della strampalata quotidianità della famiglia Ghiringhelli, che abita in Svizzera con due figli e numerosi gatti nel “duemila e rotti”, l’autore riesce trasmettere la sua visione del contemporaneo. È in particolar modo significativo il discorso che la Signora Ghiringhelli, impiegata alla Banca d’Elvezia, tiene sul palco di una convention di direttori di banca per denunciare l’avidità umana. Destreggiandosi tra invenzioni narrative e linguistiche, ma sempre mantenendosi comprensibile anche ai lettori più giovani, il libro affronta diversi temi, assumendo la prospettiva di Tullio, un bambino che frequenta la quinta elementare. Il Tullio e l’eolao più stranissimo di tutto il Canton Ticinio ha la complessità di un testo stratificato, aperto a varie chiavi di lettura, che si rivolge con versatilità a pubblici di generazioni differenti, richiamando Zavattini, Rodari, Pitzorno, Lindgren e Pennac. (NATALIA GUERRIERI)
L’ingresso nella quantomeno strampalata famiglia italosvizzera Ghiringhelli equivale a essere catapultati in un mondo fantastico che nulla, per esplosiva e pirotecnica capacità d’invenzioni, sia di trama che linguistiche, ha da invidiare a penne come Stefano Benni, Gianni Rodari o Paolo Villaggio. Ed è l’invenzione a dominare nelle quattrocentottanta pagine (che potrebbero parer tante e lo sono, ma scorrono e fluiscono più d’un ubbidiente torrentello elvetico), tra inesausti giochi di parole, animali stranoni, Banche d’Elvezia, gatti che portano nomi d’avverbi e congiunzioni, florilegi di superlativi iperbolici. In questa famiglia troviamo Tullio o, meglio e sempre, il Tullio: bambino ticinese di dieci anni, e il suo incontro casuale con l’eolao, animaletto mutante d’indescrivibili abitudini alimentari. L’affezione è immediata ma il Tullio, carattere timido e silenzioso per cercare di passar inosservato, ben presto comprende come con un eolao – e con tutti gli eoleolaolai, plurale scioglilingua che conferma le regole della narrazione – risulti ahimé difficile passare inosservati. Un romanzo d’esordio scintillante fantasia, bizzarro, dove si ride e si sorride e s’affrontano temi importanti – le diversità, per esempio – con una levità desueta e preziosa che gioca sì con le parole, ma in maniera serena, sicura. Sì, la penna di Rigiani è sicura, colta, consapevole, e da parecchi dettagli – uno su tutti: la vorace bestia bugblatta, mi sovvieni Adams? – se ne intuisce la formazione, le letture, la solidità costruttiva. La maturità, insomma. (PAOLO CASADIO)
Uno dei libri “più divertentissimi” che si possa immaginare. Attraverso un'infinità di "fantasiosi deragliamenti dall'ordine e dalla logica" l'autore ci conduce in una Svizzera che non ha nulla di svizzero per seguire le avventure di un bambino dall'immensa fantasia (per la precisione, una fantasia grande come l'Australia) e del suo eolao, animale immaginario proteiforme che è impossibile non amare. Tra i due c'è una simbiosi perfetta, tanto che il secondo sembra l'incarnazione di tutte le follie concepite dal primo. Giocando di continuo e con sfrontata disinvoltura con la lingua (italiana e non solo), mettendo alla prova il lettore con iperboli strampalate e parole impronunciabili, il romanzo inventa una logica tutta sua che sembra dare vita a una nuova prospettiva sul mondo, rendendo tutto più autentico e gioioso. E senza fartelo neppure notare, la storia ti porta a riflettere sui rapporti tra adulti e bambini, sulla società e sulla letteratura. Perché del resto, con tutta la rassicurante assurdità che pervade il libro, basta un attimo per ritrovarsi a sbriciolare opportunamente l'alfabeto e balbettare girondi stornati a sabati alterni. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Un libro che spiazza ogni possibile attesa, ugualmente fruibile da un pubblico di lettori adulti o di bambini curiosi. La lingua si presenta come viva ed effervescente: si piega, si colora, prende corpo, si deforma, crea mondi, personaggi o animali possibili, in una vera e propria, riuscitissima, acrobazia letteraria, che strizza l’occhio al surreale, regalando preziose risate e offrendo prospettive interessanti. Una storia ben confezionata, che sa soprattutto restituire al lettore un’indispensabile capacità di sorridere, nutrendosi della semplicità della fantasia e della creatività. Un romanzo, come l’eolao di cui ci racconta, tutto da scoprire. Riuscitissimo. (DAVIDE TOFFOLI)
Un racconto straordinario, destinato a restare fra i punti di riferimento della moderna narrativa per ragazzi e, dunque, indirizzato prima di tutto agli adulti, meglio se insegnanti delle scuole Primaria e Secondaria: i quali, col pretesto del doveroso aggiornamento scolastico, potranno finalmente passare ore felici e rinnovarsi nell’animo e nelle capacità linguistiche. Infatti, l’arricchimento non sarà solo sul versante della fantasia, dilatata dall’autore alla stregua dei capolavori già affiancatigli dalla critica, ma soprattutto sul piano linguistico, dove una sintassi articolata e parimenti fluida si unisce a una grammatica e lessico rinnovati e tesi ad offrire gioielli unici di espressività meravigliosissima (che si spera entrino nell’uso). Ma anche sul piano delle emozioni, i sentimenti della fedeltà e dell’amicizia, degli affetti e dell’amore ne escono vittoriosi. Una ricetta veramente felice per questa attualità così triste e con poche speranze. Evviva! (ISABELLA BECHERUCCI)
Basta un bruco geometra, trovato nell’insalata proprio nel giorno in cui Tullio compiva dieci anni, a dare l’avvio ad un romanzo fantastico già nel titolo. Un bruco che, nel corso degli anni, assume sembianze sempre più inimmaginabili ma che vive la sua molteplice diversità nell’accoglienza di tutti. Con ritmo incalzante, l’Autore trascina il lettore in questa scatola magica delle parole, ovvero il libro, creando neologismi e modi di dire con la maestria di Rodari. Un romanzo che, in fase di lettura, suggerisce immagini da film di animazione, in particolare quelli della Pixar. (PASQUALE BRASCHI)
Giorgio Scalia
Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo (Pessime Idee)
In Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo, Giorgio Benedetto Scalia ricrea con abilità un ambiente linguistico ben preciso (quello della Vucciria) riuscendo così a costruire una propria lingua capace di utilizzare le categorie della commedia per raccontare una storia in cui non c'è (o non ci dovrebbe essere) niente da ridere. Del resto è questa la peculiarità principale della letteratura: ridere della precaria condizione umana, giacché, come sosteneva Beckett, non c'è nulla di più comico dell'infelicità (in questo caso anche della presunta santità). (GIAN MARCO GRIFFI)
Per la straordinaria capacità di dipingere la Vucciria palermitana mescolando italiano e dialetto in una lingua nuova, corposa, poetica. Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo brilla nel panorama della letteratura contemporanea per l’originalità della sua prosa e quella della sua trama. L’ossessione per i propri capelli di Saro Scordia offre una variazione sul tema del narcisismo, molto attuale nell’epoca contemporanea (anche se non è solo per vanità che il personaggio è legato alla sua chioma). Il personaggio e il suo fatal flaw riecheggiano l’umorismo pirandelliano, alternando comicità e tragedia. La dimensione religiosa si inscrive con freschezza nella cultura italiana dei santi e dei loro miracoli, componendo un’alternativa e inaspettata agiografia dei giorni nostri. (NATALIA GUERRIERI)
Saro vende pesce al mercato della Vucciria di Palermo. Fiero della sua foltissima e ancor nera capigliatura, è considerato un bell’uomo dalle affezionate clienti. Un giorno la sua vita tranquilla viene turbata da un evento imprevedibile: un colombo impazzito gli strappa un ciuffo dei suoi preziosi capelli. Da questo momento inizierà un tragicomico calvario simile per certi versi a quello del “Naso” di Gogol, ma con un esito ben diverso: sulla nuca ora priva di capelli gli comparirà una voglia nella quale un prete rivedrà l’immagine del Cristo, trasformando Saro in un oggetto di venerazione. Il culto cattolico-pagano del miracolo è il sostrato di tutta la cultura popolare descritta dall’autore, con rappresentazioni assai curate della vita del mercato e dei pesci che ne sono oggetto, rispetto ai quali il colombo profanatore della capigliatura di Saro è un’entità aliena o forse un’inviato divino che lo trasforma in santo. Non manca il momento topico della resurrezione, quando la preghiera del parroco si dimostra più efficace del defibrillatore concorrendo alla santificazione. Scritto in un misto di siciliano e italiano che ricorda un po’ Camilleri, il romanzo si fa apprezzare per la rappresentazione affettuosamente ironica della religiosità popolare palermitana. La fede nel miracoloso Saro è il segno di una cultura arcaica che resiste a ogni cambiamento e che ricorda le descrizioni dell’antropologia demartiniana. Dato il carattere un po’ farsesco del romanzo, è inevitabile che i miracoli accadano veramente, sia pure per caso. Saro finisce così per convincersi di essere diventato davvero un santo e per accettare un ruolo che lo rende allo stesso tempo ricco e schiavo. (VINCENZO REZZUTI)
La storia di Saro e dei suoi preziosissimi capelli, "come coriandoli intrisi di ricordi". La trama si apre con una singolare e tragicomica epopea tricologica, le cui fasi sono descritte minuziosamente, che sfocia poi in un'avventura mistica, una svolta del tutto inaspettata se non fosse già preannunciata dal titolo. I dialoghi, quasi interamente in dialetto, donano alla narrazione il suo colore e ai personaggi la loro anima, ma possono talvolta rappresentare un ostacolo per i lettori non siciliani, malgrado la presenza del (non praticissimo) glossario. Nel complesso, un romanzo profondo che affronta in modo non scontato i temi dell'imprevedibilità della vita, dei legami familiari recisi e del business dei miracoli. Con la giusta dose di mistero, la storia affascina il lettore e lo accompagna pagina dopo pagina, fino all'enigmatico finale. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Vita e martirio di Saro Scordia, pescivendolo, ovvero (per alcuni) l’importanza e l’ossessione dei capelli. Nel romanzo – ironico e amaro – s’intrecciano, in un gioco sapiente e millimetrico di elementi terreni e celesti, sacro e profano. Molto sacro e molto profano. Le disavventure di Saro - una figura da grandi classici – quella sua vita tranquilla scandita dalle abitudini della Vucciria, dal suo convivere con la nonna; quella sua vita tranquilla che gli permette di dedicarsi agli amati capelli con rituali tanto minuziosi e studiati quanto buffi. Saro è un puro, un onesto, ovvero un perdente. Nella sua nuova veste di santo, un santo che dispone di involontari poteri miracolosi, perderà tutto e non solo la capigliatura. E la giustizia nei confronti dell’abietto don Diego, colui che s’appropria dei proventi dei miracoli di Saro, s’affida al ritorno – perfetta chiusura circolare – della colomba. Nelle pagine di Scalia c’è la Sicilia nei suoi più puri tratti popolari, nella sua espressività, nella sua vita quotidiana, nella sua tradizione teatrale, nella sua lingua carica di storia, saggezza, ironia e fatalismo. Un romanzo che, in fondo, è un delizioso, gustoso gioco di specchi che spesso ricorda una parabola evangelica. (PAOLO CASADIO)
Sacro e profano, mescolati con dialetto palermitano, rendono questo romanzo realistico. Con sarcasmo e ironia, senza mai nascondere un’amarezza di fondo, l’Autore narra la vita di Saro, vittima innocente prima del piccione che gli strappa una ciocca di capelli e dopo di don Diego che usa la sua immagine per ingannare la gente. Una storia avvincente che mette in evidenza il bisogno dell’uomo di credere nel divino attraverso simulacri e misticismo pur restando aggrappato alla fede popolare e alle leggende come quelle narrate da Baudolino (di Umberto Eco). (PASQUALE BRASCHI)
Romanzo avvincente, che coinvolge il lettore dall’inizio alla fine, calandolo nell’atmosfera di un certo Sud intriso di credenze e superstizioni, dove la gente è pronta, spinta dal bisogno e dalla disperazione, a creare santi e a gridare al miracolo anche di fronte ad avvenimenti e coincidenze più o meno comuni (o, forse, si tratta di prodigi veri e propri, che neppure l’autore riesce a individuare del tutto come tali?); salvo poi a rinnegarne e a annientarne, al primo fallimento, il protagonista (come spesso avviene attualmente a certi personaggi mediatici). Viene quasi il dubbio che il medico che fa ricrescere a Saro i capelli, privandolo però del suo “potere”, sia il Diavolo in persona. Personaggi e rapporti (ad esempio quello tra Saro e don Diego o quello tra il giovane e la madre, ritrovata per un attimo senza saperlo) ottimamente costruiti, molto ben delineata la psicologia della folla, ritmo serrato, finale non scontato. Indovinata anche la scelta di usare il dialetto siciliano, pur se il glossario avrebbe potuto essere un po’ più completo, in modo da svelare sfumature non sempre comprensibili a tutti. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Elisabetta Pierini
Notte (Hacca)
In Notte di Nicoletta Pierini la scelta è quella di utilizzare un linguaggio diretto, privo di fronzoli, giacché l'obiettivo è quello di approfondire in maniera del tutto personale l'eterna dicotomia tra bene e male, riuscendo a portare in scena quel grande gigante che è la Provincia italiana, gigante affrontato nella "lotta" tra due sacerdoti e nei sussurri degli abitanti di un paesucolo nel quale si sviluppano le vicende di una storia che si avventura nella ricerca della verità, o almeno di una verità, per scoprire che, diversamente dalla religione, in letteratura e nella vita umana non esiste una sola verità, anzi forse non ne esiste neppure una. Ciononostante, uno dei privilegi della letteratura è quello di affrontare l'incessante ricerca della verità da parte degli esseri umani, e Nicoletta Pierini la affronta con grande bravura in questo suo romanzo. (GIAN MARCO GRIFFI)
Per le descrizioni limpide di una provincia dimessa, che a tratti richiamano le atmosfere di Silvio D’Arzo. Don Filippo sembra un moderno Don Abbondio, sperduto, spaventato, incerto come il presente che si ritrova ad abitare. Un intreccio di storie che descrivono lo squallore, le debolezze, le noie e le attese dei pomeriggi sospesi in un piccolo paese, tra adolescenti che si sfidano a fronteggiare la morte, i piccoli egoismi degli esercenti, la sospettosa freddezza fra vicini di casa e i dolorosi segreti delle famiglie. Le domande che scaturiscono già fra le prime righe del libro riguardo al mistero che avvolge il paese spingono a voler proseguire, a cercare la verità tra indizi e supposizioni fino all’ultima pagina. (NATALIA GUERRIERI)
Don Filippo, inviato dal vescovo a Monterosso per indagare su presunti traffici del parroco Don Paolo, si trova a dover dipanare una rete di sommesse maldicenze che gli rivelano la realtà di una provincia rancorosa. Dovrà cercare di superare la diffidenza di Matteo, un ragazzo vittima di bullismo, e della sorella Gloria. Entrambi difendono la propria difficile famiglia da quello che ritengono un pericolo: l’intervento dei servizi sociali che porterebbe Matteo in un istituto. Deluso dall’istituzione che rappresenta, incerto sull’esistenza stessa di Dio, Don Filippo è l’antitesi del curato di campagna di Bernanos per due motivi: per l’età, che lo ha portato a perdere l’entusiasmo e l’intransigenza giovanili, e per la frequentazione delle gerarchie ecclesiastiche che gli ha tolto ogni illusione sull’istituzione di cui fa parte. Nonostante questo tenta, per senso del dovere ma quasi controvoglia, di fare ciò che crede giusto pur nella certezza di fallire. Al contrario di Don Filippo, Don Paolo crede che il bene sia indistinguibile dal male e che per farlo occorra compromettersi, diventando parte di quell’umanità peccatrice che si cerca di migliorare. Maggiormente descritti e seguiti nel testo, Matteo e Gloria non riescono a raggiungere la stessa complessità psicologica dei due preti. Gloria in particolare appare troppo sicura di sé per non nascondere una fragilità che però non si fa notare. Uno stile letterario secco, essenziale, che ricorda molta letteratura italiana del novecento. Possibile anche l’influsso della letteratura di lingua francese, in particolare lo stesso Bernanos e Simenon. Di quest’ultimo pare di riconoscere l’acribia delle descrizioni del tipico mondo della provincia, che l’autore rende con asciutta efficacia. Vi sono però, a mio parere, alcuni difetti nel testo. Il più importante è la mancanza di “understatement”: il lettore sa tutto di tutti e un po’ si annoia. Il secondo è l’ambientazione che sembra anni cinquanta ma è collocata in realtà nel nostro tempo. Il terzo è la descrizione della famiglia di Matteo e Gloria, un po’ troppo scontata, quasi da tipico caso sociale. (VINCENZO REZZUTI)
In un microcosmo di abusi, pettegolezzi e superstizioni, si muovono due sacerdoti, don Filippo e don Paolo, figure opposte e speculari: il primo è schivo, a tratti ingenuo e con il timore di non riuscire più a provare emozioni; il secondo ama circondarsi di cose belle, è malizioso e fin troppo disinvolto. Entrambi hanno dei segreti che vengono alla luce a poco a poco fra inganni, voci di popolo, lettere anonime e incendi provvidenziali. Tra i punti di forza del romanzo si nota l’efficacia delle descrizioni fisiche che fanno affiorare i moti interiori dei personaggi (facce affilate o che sembrano di plastica, nasi che vibrano, occhi come buchi vuoti, occhi obliqui, un sorriso posticcio su una faccia rosa). (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
L’autrice è abilissima nel creare personaggi che, da subito, si delineano come indelebili per chi legge e si presentano nella profonda complessità dell’animo umano. Tutto questo viene esaltato dalla dimensione rassicurante e familiare di un paese di provincia, dalla sua posizione privilegiata proprio perché defilata. Suggestivo il contrasto tra ideale e realtà, con una verità auspicata ma solo apparente e con la necessità di scelte difficili che popolano ineluttabilmente la nostra vita, richiedendo risposte semplici e immediate alla complessità soffocante dei problemi da affrontare. Una preziosa riflessione sul bene e sul male, nuda e cruda, senza alcuna possibile via di fuga. (DAVIDE TOFFOLI)
E notte sia, alimentata da lettere anonime e mezze verità e bugie, dove le sicurezze vere o presunte che puntellano la vita vacillano, traslando il vivere in dimensioni precarie e traballanti. Titolo netto e azzeccato per un romanzo (scritto con mano sicura) che getta ombre sulle certezze, e sono le ombre tremule generate dalla fiammella fragile d’una candela in balia del vento. Provincia profonda. Una provincia d’oggi, mezza spopolata, percorsa dal divario incolmabile tra anziani e ragazzetti. Monterosso, un paese dove la fede si spegne nello spegnersi delle generazioni che la alimentavano e nel progressivo vuoto d’una chiesa. Don Paolo, il parroco, è sotto accusa. Sussurri, chiacchiere a metà voce, si dice, si racconta; lettere anonime dove si dice e si racconta. Don Filippo è incaricato dal vescovo di capire quel che succede e appurare quel che è successo, se è successo. Discernere il vero dal falso. Incarico quanto mai difficile, perché spesso nulla è più vero del falso e nulla è più falso del vero. Pierini possiede un talento indiscutibile per raccontare quel corpo molle e sfuggente e vasto che è la provincia, indagarne le contraddizioni, definirne purtroppo la spietata brutalità. Un talento simenoniano fatto di particolari riflessi, lame di luce e lame di buio. Un talento che sa esplorare, scrutare, indagare l’animo umano e interrogarlo sui principi eterni che ne determinano il giorno oppure la notte. Ma, anche, il crepuscolo, oppure l’alba. (PAOLO CASADIO)
Un romanzo incentrato sul collasso del ruolo spirituale della Chiesa: il sacerdozio, col peso della sua missione, con le sue tare, con la solitudine e l’assenza di dialogo fra i vari membri, vescovo incluso, e la comunità laica anticlericale, viene anatomizzato con imparzialità e senza tregua nell’ostile realtà di un piccolo paese di circa duemila anime. Dopo lo sconsolato e ironico catalogo della linea lombarda (Carlo Porta e i suoi Fraa Zenever e Frà Diodàtt e Alessandro Manzoni e il suo Don Abbondio) sono ripresentate, e fatte agire a contrasto, due tipologie di sacerdoti dei tempi odierni: un vecchio abulico e disincantato e un giovane vanesio e corrotto. Ma ogni timbro di leggerezza, pur nella satira pungente dei costumi degenerati, è scomparso per lasciare spazio a un unico accordo grave, prolungato fino al triste esito finale. La notte in cui si verificano gli eventi più cupi è quella dell’anima e un’alba di conversione timidamente si affaccia solo nel grande protagonista don Filippo, ma senza una vera risoluzione: come il buio che cala impietosamente, lasciando appena uno spiraglio alla luce effimera dei sogni. L’autrice si prende tutto il tempo (anche troppo) per costruire una misteriosa vicenda di intrighi e miserie, con tanti personaggi complessi, che, dopo più di trecentocinquanta pagine, lascia al lettore paziente una profonda amarezza. (ISABELLA BECHERUCCI)
Una duplice dicotomia tra verità e giustizia, bene e male serpeggiano parallelamente per tutta la narrazione. Dualismi che però non disdegnano di ricongiungersi in pace, anche se per poco, grazie all’intervento esterno dei due protagonisti. L’Autrice porta in scena due preti, don Paolo e don Filippo, che, seppure contrapposti, dovranno affrontare le dicerie delle circa tremila anime che popolano Monterosso per fare chiarezza e giustizia sulle vicende di cronaca che attanagliano la parrocchia di montagna e che mettono in dubbio anche il loro operato. (PASQUALE BRASCHI)
Sezione B: Romanzi Inediti
Fausto Paolo Filograna
Una fine
Romanzo corale, a tessere. Ospita una voce monologante, o in dialogo con medici e terapeuti: la voce di un uomo che guarda e ricorda mentre invecchia in una città straniera. Poi almeno altre due voci: appartengono a una giovane coppia che non sa cosa fare del proprio futuro. Ma la trama conta fino a un certo punto, e ci si perde. Il testo è infatti un cantiere che, nella sua progettazione e resa, mostra tanto virtù quanto imperfezioni. Lingua e stile però sono maturi, mai friabili, anzi densi e spessi, riconoscibili come la tradizione entro la quale l’autore vuole collocarsi senza adottare schemi facili. Il testo si lascia apprezzare per un ingrediente la cui presenza distingue la buona scrittura dalla cattiva: il coraggio. (DAVIDE ORECCHIO)
Un romanzo complesso che deve molto alla letteratura mitteleuropea del novecento e in particolar modo a Thomas Bernhard. Il protagonista principale è uno scrittore di origine italiana (Isaia) che vive in una città del Nord Europa (Stoccarda) dopo avere vissuto a lungo in Svizzera con la madre malata e Caterina, sua moglie. Isolato da un mondo di cui vede il destino di decadenza e corruzione, legge libri alla ricerca di una purezza impossibile ed è ossessionato dal pensiero di Wittgenstein, o forse più che dal pensiero dal suo stesso nome. Attraverso la lettura riempie l’assenza del padre, tanto da trovarne più di uno (lo stesso Wittgenstein, Bernhard). Anche la “cosiddetta” madre legge, ma solo testi sacri, e contamina il mondo puro di Isaia con la sua presenza e con un putrido allevamento di codirossi. Se la “cosiddetta” madre morirà, lo stesso Isaia è gravemente malato nello spirito e destinato al suicidio. Lo rivelerà il medico (Tiziano, che pare medico e psichiatra nello stesso tempo) cui Isaia confida il disfacimento del proprio mondo, che si manifesta ad esempio nel comportamento della famiglia di pachistani che gli vivono accanto. Ma realtà e sogno, nella psiche alterata di Isaia, sono difficilmente distinguibili, così come passato e presente. Nel romanzo ci sono altri “narratori”: Tiziano, il medico, Monica, la sua amante, e attraverso Isaia la nonna di lui, Larissa. Il testo è scritto finemente, con una prosa che sembra ispirata spesso a Thomas Bernhard e a volte a Roberto Bolano, ma che mantiene alcuni margini di originalità. Il romanzo sembra, soprattutto all’inizio, una metafora della condizione di isolamento nella società attuale della maggior parte delle persone, anche se la “famiglia” descritta appartiene per caratteristiche a una colta borghesia novecentesca. Il romanzo vive di citazioni indirette come il suo protagonista, la cui incapacità di adattarsi alla realtà è misurata dalla sua stessa totale immersione in una dimensione puramente letteraria. (VINCENZO RIZZUTI)
“Una fine” è un romanzo che trascina il lettore in un mondo stanco e rurale, inquietante e famigliare allo stesso tempo. Il romanzo ha un tono mitteleuropeo e filosofico. È costruito in maniera cerebrale mescolando parti in prima persona a parti in terza, con punti di vista diversi di personaggi diversi. Le varie sezioni e sotto sezioni si incastrano nella costruzione di un mosaico ispirato, in maniera evidente ma anche dichiarata, a Bernhard e Sebald. La struttura del romanzo è molto complessa come si evince anche dall’inserimento di fotografie e altri materiali. I due personaggi principali sono Isaia diviso fra la “cosiddetta madre” e la “madre morta”, e la coppia Tiziano-Monica, nella quale lui è il medico che non impedisce il suicidio di Isaia; suicidio che rappresenta nella filosofia romanzesca dell’opera un pilastro centrale. Nonostante la costruzione cerebrale del romanzo, soprattutto nella sua struttura, l’opera riesce comunque ad attrarre il lettore e condurlo all’interno di un mondo interessante nel quale ci si appassiona alle sorti dei protagonisti e alle loro motivazioni. La lingua è a tratti ben ricercata, senza voler stupire a tutti i costi. (MICHELE FRISIA)
Una fine di Fausto Paolo Filograna è un romanzo di non facile approccio che ha il pregio di alimentarsi di un linguaggio raffinato dall'accento mitteleuropeo. Tra le righe, si riconosce l'influenza di autori europei di un certo peso, primo fra tutti Winfried Georg Sebald. Si veda, ad esempio, l'apparato visivo di cui il romanzo è dotato, molto simile a quello di cui si serviva l'autore tedesco. Si tratta di foto in bianco e nero, prive di didascalia, la cui funzione è probabilmente quella di richiamare alla memoria frammenti di passato. Inoltre, Isaia è molto simile al protagonista omonimo di Austerlitz , uomo erudito, immerso nella letteratura e nella filosofia, solo con i suoi pensieri e ricordi, a disagio con gli altri e, non ultimo, cultore fino al fanatismo, di Wittgestein. Una fine è la storia - non lineare - di un uomo isolato che poco sembra appartenere al nostro tempo. Il protagonista/narratore è Isaia, uno scrittore italiano che vive in nordeuropa con – almeno in un primo momento - la madre malata e Caterina, sua moglie. La lettura è la sua principale attività tanto da fagogitarne l'azione, quasi il respiro. Nei libri ricerca una perfezione impossibile e nei loro autori - in primis Wittgestein e Bernhard - cerca un riparo paterno. Se lui si rapporta con mostri sacri, la madre - allevatrice di uccellini da appartamento - legge testi sacri quali Il castello interiore di Santa teresa D'Avila, testo che ben si adatta al protagonista, sebbene il suo castello assomigli a una gabbia soffocante. Isaia avverte la presenza della madre come un fastidio poiché fa fatica a relazionarsi, respingendo ogni contatto fisico. Allo stesso modo, Isaia esclude il mondo esterno ed è evidente il rifiuto patologico di partecipare ad una realtà che egli vede come corrotta e votata alla distruzione (Si veda la vicenda dei vicini pachistani). È evidente che lo stato di Isaia è dovuto a una malattia della psiche, a causa della quale, talvolta, non distinguerà tra sogno e realtà. Una fine si rivela un romanzo lungo, talvolta poco entusiasmante, ma elegante nella scrittura che si caratterizza per complessità sintattica e lessicale. Il testo impegna il lettore che può sentirsi escluso dal processo narrativo o addirittura disorientato nel suo percorso di lettura e comprensione. La tematica psichiatrica è ben affrontata, senza tecnicismi che ne rallenterebbero il ritmo, sebbene quest'ultimo, in generale, sia poco incalzante. Gli altri personaggi/narratori - come Tiziano, il medico di Isaia e Monica l'amante - fanno sentire la propria voce ma calpestano la narrazione, rallentandola. Suggestivo il finale. (LUIGIA BENCIVENGA)
Stefano Besi
Gli eroi di mattina dormono
È possibile considerare Gli eroi di mattina dormono un romanzo a episodi indipendenti, quanto una raccolta organica di racconti. In ogni caso, e in assenza di una definizione dell'autore, si tratta di un delizioso ritratto della quotidianità contemporanea che mai sfiora il luogo comune. I sei testi (ciascuno ha un titolo e un'indicazione agogica) sono indipendenti narrativamente ma uniti tra di loro grazie alla presenza ricorrente di oggetti (anello, tappeto) e personaggi ben delineati che finiranno per incontrarsi nel finale. Altro elemento comune è il finale di ciascuna sezione: mai scontato o definitivo, come a lasciare aperte possibili finestre narrative sempre caratterizzate da ironia sottile senza cedimenti al facile sarcasmo. A fornire organicità all'intera narrazione sembra essere la tenerezza, quella spinta emozionale che supera l'individualità per raggiungere l'altro, sia esso bambino, anziano, adolescente, genitore o ladro. Altro collante è lo sguardo semplice, non banale, che manca ai nostri tempi e che ritroviamo addensato in queste pagine di luminosa bellezza. Il racconto che dà il nome alla raccolta/romanzo ha come protagonista Giovanni, un novello Oblomov, appena disoccupato, la cui pigrizia è ben disegnata nel suo rapporto con il letto. “Restò incastrato in una bolla di delusione. L’unico modo per sfuggirle fu addormentarsi di nuovo.” Il suo oblomovismo estremo assumerebbe i toni della depressione se non fosse per il piacere che pervade Giovanni nell'impigrirsi, non immune da accenti comici. “Non aveva energie nemmeno per tagliarsi la barba, né per cambiarsi i vestiti. Indossava sempre la stessa maglietta e la differenza tra il giorno e la notte consisteva soltanto nei pantaloni che metteva quando camminava per casa e che toglieva quando si sdraiava sul divano per dormire.” Giovanni è alle prese con una seria crisi matrimoniale. Sua moglie se n'è andata e suo figlio Simone soffre per la mancanza di attenzioni del padre. I tentativi di salvare il matrimonio sono buffi – finge di correre - quanto il suo procrastinare eventi e decisioni. “Attese a lungo un evento qualsiasi in grado di modificare quell’equilibrio insostenibile, ma si rese conto che nulla sarebbe accaduto senza il suo intervento.” Ne La fantasia non crede alle coincidenze, la piccola Eva, ha una missione. Raggiungere, con il piccolo Simone (figlio di Giovanni) il centro commerciale tra alieni con buone/brutte intenzioni (adulti) che mentono troppo spesso. Il suo scopo è comprare un tappeto nuovo, oggetto che ha un forte significato simbolico per i genitori, anch'essi in crisi. Nel corso dell'avventura incontreranno Federico che si servirà della bambina per avere notizie sull'abitazione del nonno che intende derubare. Federico sarà il protagonista di La perfezione vive da sola. Federico fa di tutto per riconquistare la sua ex. Ruba dalla casa del nonno di Eva un anello prezioso e scrive sul muro “Martina io ti ascolto” affinché lei ritorni. Nessun tentativo avrà successo. L'anello ritorna in Nessuno è preparato alla guerra, il nonno registra una fiaba per la nipotina. in cui ripercorre la storia dell'anello , invitando la nipotina a non abbandonare il suo mondo immaginario. La registrazione è l'occasione di lasciare consigli, talvolta contraddicendo le regole imposte dai genitori: “cura la tua fantasia, questo mi sa che l’ho già detto, ma i vecchi ripetono le cose importanti.” Ne Le stagioni hanno un lieto fine? si fa un salto nel passato quando i genitori di Eva frequentano il liceo e entrano di notte, riprendono un oggetto, infrangono vetri e danno fuoco agli schedari. A questo delitto impunito, seguirà la rapina alla libreria di Federico che, dopo averli sorpresi, invece di denunciarli, li assume come complici per rubare in supermercati e centri commerciali. I due, dopo un tentativo di rubare al Louvre, si ameranno per poi tornare a Roma e concepire una bambina. “La chiameremo Eva. Come Eva Kant.” Il racconto finale vede una reunion dei principali personaggi. È la festa di compleanno di Eva. Tra gli invitati c'è anche Federico che intende lasciare in casa l’anello rubato e farlo tornare al legittimo proprietario, il nonno. Sbaglierà poiché infilerà il gioiello nella tasca di Giovanni che non perderà tempo nell'offrirlo alla moglie come pegno di un amore rinnovato. L'autore ha perfettamente assimilato la lezione di Benni, Pennac, Cerami. Semina indizi, rivela coincidenze, si concentra su idee forti, mai forzate. Il suo è uno sguardo tenero e non accusatorio. Osserva e fa agire i personaggi senza giudicarli, nemmeno in presenza dei loro evidenti difetti. Lo fa attraverso una prosa limpida e disarmante che regala luminosità all'intera narrazione. (LUIGIA BENCIVENGA)
Romanzo che è in realtà un susseguirsi di racconti interconnessi, con i vari protagonisti che formano tra loro relazioni a catena e che si riuniscono tutti insieme nell'epilogo, componendo una sorta di grande famiglia. Tra questi incontriamo Giovanni, o meglio i due Giovanni: quello che di notte imposta la sveglia e quello che di mattina la spegne senza esitazione per dormire ancora; e poi Eva, decisa a salvare la sua famiglia con un'impresa fiabesca; Federico, un mix di abilità e goffaggine; l'anziano Antonio e il suo rapporto con la nipote, con il figlio e con i ricordi; Paolo e Alice, con il loro improbabile furto a Parigi. Attraverso le loro vicende ci viene offerto uno sguardo ottimista sul mondo, un’atmosfera serena che rende questo libro un esempio narrativo ben riuscito di leggerezza. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Romanzo corale di vicende e personaggi che si incastrano l'un l'altro scritto con una ironia e leggerezza che rendono la lettura piacevole e scorrevole complice anche un'intelligente struttura narrativa "a staffetta" (RENATO NICASSIO)
Più protagonisti, le vicende dei quali, legate in un intreccio comune, si dipanano via via fino al quadro finale, nel quale tutti gli attori sono presenti e rivestono un ruolo preciso. Ottima la descrizione caratteriale dei personaggi, mentre quella dei loro tratti fisici è lasciata in parte all’immaginazione del lettore. Finemente tratteggiati gli atteggiamenti di scarso o nullo ascolto della partner e/o di negazionismo di fronte alla crisi di una relazione sentimentale, tipici di alcuni maschi. Scrittura scorrevole, capace di catturare l’attenzione del lettore e di provocarne il coinvolgimento emotivo; finale che lascia spazio alla positività e alla speranza. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Ramon Guevara
Fino all'osso
Brenno è un senzatetto che sopravvive a Bologna con lavoretti precari, raccogliendo cicche quando non ha soldi per le sigarette e dormendo in dormitorio o per strada. Prima viveva con Margherita, ma lei dopo averlo tradito lo ha abbandonato per andare a vivere a Roma con un altro uomo. Immerso in un presente angosciante, trova nell’amicizia di Duda l’unica possibilità di relazione umana. Ma Duda, che non è più in grado di volere bene a nessuno, lo introdurrà all’uso dell’eroina. Ci sarà ancora un’ultima possibilità di salvezza, un residuo di umanità che apparirà d’improvviso, inatteso. Un breve romanzo, scritto con uno stile secco ed efficace, che ritrae con semplicità un mondo di emarginati. Se la disperazione è spesso causa dell’emarginazione, è l’apatia e l’impossibilità di andare oltre il presente che impedisce di uscirne. Tra immigrati e tossici, Brenno impara che la lotta per sopravvivere non concede spazio alla pietà e che non vale la pena di resistere. La forza del testo risiede nei dialoghi, che inevitabilmente a tratti ricordano “Aspettando Godot” di Beckett (in particolare all’inizio nel dialogo tra Brenno e Amis). La condizione di emarginazione assoluta come in Beckett pare assumere un valore metafisico e la cattiveria del mondo non è altro che un dato di fatto universale. Le eccezioni, come la Maga, possono confondersi con la debolezza umana e sembrano così strane che il primo impulso che si prova, incontrandole, è di fuggire. L’autore riesce a trattare questo mondo spietato senza indulgere in nessun moralismo, e questo è un grande merito. Come un merito non secondario è quello di mostrare ciò che per la maggior parte di noi resta invisibile o quasi, nelle città tuttora piene di luci e di locali dove andarsi a divertire (tra i vari lavori Brenno si trova anche a doverne pulire alcuni dopo l’orario di chiusura). È solo alla fine che si insinua una possibilità, una speranza nonostante tutto, per dimostrare che l’amicizia e l’amore esistono perché sono necessari, e questo rende il romanzo meno cupo di quanto non sembri. Un tema non del tutto secondario nel romanzo è costituito dal rapporto con il cinema, cioè con l’immaginazione che edulcora la realtà ma che la può anche rivelare, come nel caso del film che dà il titolo al romanzo. “Fino all’osso” infatti è un film horror che Duda vorrebbe fare vedere a Brenno. Si diventa veri cannibali solo se si sbrana qualcuno fino all’osso, e Brenno capisce di esserlo diventato quando per salvarsi denuncia dei piccoli spacciatori suoi conoscenti: come i cannibali è pronto a sbranare chiunque pur di sopravvivere. (VINCENZO REZZUTI)
Un breve anti-romanzo di formazione che ci porta dentro una storia di dipendenze e amicizie non convenzionali, con immagini potenti che si attorcigliano e stridono l’una con l’altra. Il protagonista, Brenno, giovane dell’animo fragile, ferito dalla vita, saltella allegramente verso l’ossessione. Ma Brenno è anche un concentrato di ingenuità capace di suscitare a tratti un’inaspettata ma forte dolcezza, che è forse la più gradita tra le sorprese emotive che il romanzo riserva ai lettori. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
“Fino all’osso” di Ramon Guevara racconta della piccola odissea di Brenno, un senzatetto di Bologna alle prese coi problemi, anche cruenti, della vita di strada, e allo stesso tempo con le illusioni che ingannano, più che altro, il protagonista stesso. Il punto di vista resta sempre attaccato a Brenno, che il lettore pian piano arriva a conoscere e sondare nelle sue complessità. Gli altri personaggi, benché a volte scivolino pericolosamente verso alcuni cliché, riescono comunque a stupire e forniscono la maggior parte del supporto all’ambientazione. La lingua è lineare, adatta allo scopo, senza inutili virtuosismi. La tecnica narrativa allo stesso modo, fatta eccezione per alcuni flashback, non indulge a sé stessa. (MICHELE FRISIA)
Nel romanzo intitolato “Fino all’osso”, Ramon Guevara racconta le giornate di Brenno, un uomo che dopo la chiusura della storia sentimentale con Margherita si ritrova a vivere senza una casa e con i pochi soldi che riesce a guadagnare grazie a lavori occasionali. A condividere la sua quotidianità ci sono Anis, un altro senzatetto dedito alla droga e che ha spesso atteggiamenti ambigui, e Dude, una sua vecchia conoscenza che ha avuto un percorso inverso al suo (dalla strada al tetto di una casa). Non sembra esserci amicizia in questi rapporti, solo un po’ di complicità, perché ognuno è pronto ad approfittare dell’altro. Dude, per esempio, aiuterà Brenno in più di un’occasione, ma lo porterà anche a sviluppare una dipendenza dall’eroina, lo userà per liberarsi degli spacciatori che rappresentano una minaccia per Anna e infine si trasferirà a Roma senza dirgli nulla e portandosi via anche i pochi soldi che Brenno aveva risparmiato per quel progetto di vita nuova. Su un piano stilistico la scrittura è abbastanza sorvegliata e resta funzionale all’avanzamento della storia. Si nota a volte qualche “cedimento”, con passaggi frettolosi che riassumono in poche righe quanto invece avrebbe dovuto essere sviluppato con maggiore calma (ad esempio nel periodo a cavallo tra pagina 13 e pagina 14, o in quello a cavallo tra pagina 67 e pagina 68), così come un paio di elementi di incoerenza (ad esempio a pagina 3 leggiamo che Brenno “guardò nel vuoto, cercando di ripescare il ricordo” di chi fosse Dude, ma poi nel prosieguo vengono fornite informazioni che rendono la cosa del tutto inverosimile). Nel complesso il lavoro è buono ma appare non del tutto compiuto. La storia avrebbe avuto bisogno di uno sviluppo maggiore perché al lettore giunge quasi recisa da un finale costruito in maniera frettolosa, con l’ingresso di personaggi (Alessio, ma in parte anche la Maga) di cui si sa poco o niente. (DAVID BONANNI)
Sezione C: Racconti Lunghi
Nicole Trevisan
"La ragazza"
Duro e delicato insieme, il racconto riesce nel difficile compito di mostrare la solitudine che può graffiare e prostrare in due stagioni cruciali della vita: la gioventù (l’esordio) e la vecchiaia (l’uscita di scena). C’è molto altro: prevaricazioni e abusi tra classi sociali, bisogno di cura. C’è poi un personaggio – la ragazza, appunto – riuscito per il suo spleen, per la sua scelta di non essere quasi nulla, di non affermarsi. Ma, che lo si voglia o no, si è sempre qualcosa, qualcuno, e questa storia lo conferma. (DAVIDE ORECCHIO)
Nella storia della letteratura la servitù è stata la voce che, attraverso uno sguardo disincantato e crudele, ha offerto una rappresentazione del proprio tempo affilata e spietata. La servitù di Jonathan Swift e le Serve di Genet riecheggiano in questo racconto affilato e disincantato. Raccontata da “la ragazza” con un linguaggio implacabile la storia procede senza tentennamenti verso il finale punteggiato da alcuni dettagli sceltissimi: –le screpolature dei suoi talloni si allontanano–. Sono dettagli espressionisti, improvvisi come inquadrature degli albori del cinema, che danno un ulteriore tocco sorprendente. (LIVIO MILANESIO)
Un’ottima idea, un narrare limpido, quasi liquido. Una voce narrante lucida. Personaggi costruiti sapientemente, non banali. Avere a che fare con un personaggio anziano, per un’autrice o un autore non è mai semplice. Siamo in grado di gestire – se così si può dire l’avere a che fare con trasposizioni irreali del reale – personaggi che siamo o siamo stati. Diverso è gestire ciò che ancora dobbiamo essere. (MATTIA GRIGOLO)
Non accade molto in questo racconto ma è il personaggio resta incisivo nella mente del lettore. Eppure “la ragazza” del titolo non ha nome, non ha fisicità perché la sua qualità migliore è l’invisibilità. Ha però intelligenza e sensibilità e consapevolezza nel suo silenzio accudente. Scrittura vibrante, in cui domina la metafora. (MARIA SCERRATO)
La scrittura paratattica ben si attaglia al racconto di Nicole Trevisan. La Ragazza, protagonista, si è votata ad una sorta di autismo, rifiutando qualsiasi interazione sociale, desiderando solo essere invisibile agli altri, siano essi compagni di studio o datori di lavoro. Preferisce essere sola e muta. Addirittura si pente quando, in qualche rara occasione, lascia andare le parole. Il lavoro manuale - lavare, pulire, rassettare per conto di altri - che svolge con puntiglioso perfezionismo la rende economicamente autosufficiente. Non c’è posto per le emozioni. La vecchia Signora che la Ragazza assiste, la vecchia Signora cui stanno venendo meno i neuroni, prova a scardinare l’angosciante solitudine e il mutismo. Tuttavia i tentativi di instaurare una qualche conversazione cozzano contro la corazza che la protagonista ha costruito intorno a sé. Sarà l’incontro casuale sulle scale con la figlia della Signora, donna superficiale e indifferente, che si preoccupa soltanto delle necessità materiali della genitrice, peraltro relegate a mercenari retribuiti, a far prendere coscienza alla Ragazza della sua condizione di automa. E a dare la stura alle parole e ai sentimenti. Narrazione asciutta e battente, per una storia cruda, ma pregna di umanità. (MARIA ROSARIA PUGLIESE)
Lucrezia Pei E Ornella Soncini
Ragazza/serpente
C’è un po’ di realismo magico in questo racconto, ambientato su un’isola fortemente simbolica dove i figli vivono in un antro denominato Stomaco, finché non riescono a liberarsi dalla logica naturalista del potere paterno. La realtà viene filtrata attraverso lo sguardo di Seconda (tutti i figli si chiamano con un ordinale) che rappresenta geograficamente la famiglia come un’isola (Sopraterra), un luogo separato fisicamente dal resto del mondo, dove anche un nuovo arrivato resta estraneo alla complicità di legami forti basati non solo sull’amore, ma anche sull’odio e forse soprattutto sui risentimenti. Il padre è avvertito come una presenza remota ed ostile, un po’ come il signore del Castello di Kafka (non a caso anch’esso rappresentazione del potere paterno). Più che un possidente è un sovrano che regna sugli stessi isolani. Il passaggio tra questo simbolismo esasperato e la realtà collegata ai ricordi è percorso a volte come in un sogno. L’inondazione che fa franare l’isola è il segno della fine della cristallizzata situazione familiare, sottolineata dal tradimento dell’Estraneo (cioè colui che ha appena sposato Terza) con Seconda. Da questo nascerà la figlia di Seconda, che segnerà la rinascita dell’isola. Un racconto che riesce a essere fantastico senza allontanarsi troppo dalla realtà dei legami familiari. L’unico appunto che mi sento di fare riguarda la scarsa profondità dei personaggi, poco caratterizzati anche per via di nomi che poco dicono di loro. (VINCENZO REZZUTI)
Le autrici sanno creare situazioni e personaggi distopici, intriganti come Seconda e li suoi fratelli nel sottosuolo e poi nella superficie di una misteriosa isola. Il potere degli elementi naturali, l’avidità dell’uomo sull’ambiente, le lotte per il potere, la sopraffazione maschilista sulle donne, perfino una guerra parricida, trasferiti in una favola contemporanea, hanno la qualità del mito. La scrittura si avvale di pennellate precise, con le quali il lettore ricrea il non-detto. (MARIA SCERRATO)
Che Soncini/Pei abbiamo un particolare talento nell’utilizzo e nella scelta delle parole, pare evidente dal racconto. Emerge oltretutto una sinergia, un’abitudine al lavoro in coppia che non può essere trascurata in una valutazione. Il peso che viene dato alla terminologia, alla costruzione di ogni singolo periodo, allo svolgersi della vicenda senza quasi mai incepparsi, è il suo vero punto di forza. Ragazza/Serpente è un racconto difficile e intelligente, che ha bisogno di essere masticato a lungo prima di essere assimilato. Un racconto che, in ogni caso, difficilmente viene digerito. Cosa che mi ha colpito e che spesso cerco nella lettura. (MATTIA GRIGOLO)
Stefania Maruelli
Cosa sto cercando di dire
Una giovane donna, Clara, arriva in una baita di montagna per ritrovare qualcosa del suo passato che è confinato in un ricordo confuso, pauroso. Forse è il ricordo di un incidente di cui lei è stata causa inconsapevole. C’è il ricordo di un uomo, alto, che viveva in quella baita e adoperava una camera oscura. C’è il ricordo di una bambina, Bianca, probabilmente la figlia dell’uomo, con una macchia sul viso, che cade in un ruscello e che l’uomo tenterà inutilmente di salvare. Un racconto che non svela il segreto di cui parla se non tramite piccoli indizi e flashback improvvisi che svaniscono subito. Si avverte un profondo senso di colpa di cui non si parla se non alludendo ad eventi che non entrano mai in pieno nella narrazione. Un gioco letterario raffinato, un understatement che ricorda Hemingway, cui l’autrice si avvicina anche per lo stile semplice e allo stesso tempo preciso, dove nulla, nemmeno un aggettivo, è mai messo a caso. E poi c’è la montagna, il senso di solitudine e di espiazione che si prova quando si è di fronte all’immagine di ciò che è più vivo della realtà che viviamo (e qui è inevitabile pensare a Paolo Cognetti). Un racconto intenso che mi fa venire in mente la brace in un camino, che arde sotto a un velo di cenere che la nasconde. (VINCENZO REZZUTI)
In questo racconto sono importanti i gesti compiuti dal personaggio più di qualunque altra cosa. Da questi, il lettore ricostruisce la vicenda della protagonista, Clara e della bambina Bianca. La narrazione fluisce in una sorta di soliloquio che la donna ha con sé stessa, ovvero una cronaca in prima persona al presente, inframmezzata dai flash dei ricordi, per un segreto che pesa come un macigno. (MARIA SCERRATO)
Sezione D: Racconti Brevi
Lucrezia Pei E Ornella Soncini
La naturale legge del vuoto
Racconto folgorante e luminoso nelle prime due pagine, dove godiamo di un incanto alienato. L’intensità si abbassa poi per un dover cedere (ma non era obbligatorio) alle prosaiche leggi dello spiegare e del mostrare. Ma la qualità resta. Breve storia di una mutazione: ci ricorda come, tra i tanti miti ancestrali e topoi letterari, quello della metamorfosi sia più vivo e fertile che mai. (DAVIDE ORECCHIO)
Una sera Alice, al cinema con il fidanzato, perde se stessa. “Riempita e svuotata” mantiene di sé solo la forma apparente. Quando rientra a casa la madre le dà uno schiaffo, pensando che il suo stato dipenda da qualcosa che ha fatto con il fidanzato. Ma Alice non torna più in sé, essendosi trasformata in una bestia assai imbarazzante per i propri familiari. Una breve storia la cui idea si situa tra la “Metamorfosi” di Kafka e un resoconto di possessione diabolica. Dietro l’anima di ogni donna è celata una forza primordiale di cui la società (in cui prevale il principio maschile) ha terrore. Un’idea non nuova ma sviluppata in modo originale. (VINCENZO REZZUTI)
La citazione di Ferdinand de Saussure con cui il testo si apre offre già la premessa teorica su cui il racconto si basa. È riportata però solo in francese, una scelta ostica per molti lettori, ma che in fondo serve a proiettarci nel tema dell'incomprensione e del divario tra sistemi espressivi differenti. Il racconto si presenta come un esperimento, un invito a guardare al di là del linguaggio conosciuto per riscoprire il mondo attraverso i sensi, ma da un'ottica estranea. La perdita della propria lingua, la lingua dell'anima, è secondo l'Io narrante un dramma che priva ogni cosa del suo significato e fa cadere l'individuo in un'incoscienza che non ha riscatto. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
"La naturale legge del vuoto" è un racconto provocatorio, intenso e simbolico che segue le vicende di Alice, una giovane donna che subisce una trasformazione radicale, sia fisica che psichica. Le autrici adottano uno stile narrativo crudo e viscerale, caratterizzato da una prosa densa e ricca di simbolismi. La scelta di un linguaggio diretto e talvolta crudo è funzionale a esprimere la discesa della protagonista in uno stato quasi animalesco e sottolinea la sua lotta contro una realtà opprimente e distorsiva. La fusione tra realismo e surrealismo crea un ambiente onirico in cui realtà e fantasia si sovrappongono. Le descrizioni dettagliate e sensoriali creano un’atmosfera potente e coinvolgente, portando il lettore a sperimentare visivamente ed emotivamente gli ambienti e le situazioni del racconto. (ELISA BELLERO)
La ragazza della storia nel buio viene riempita e svuotata. Da qui, da queste poche parole, parte una metamorfosi da persona ad animale, e una nuova serie di violenze perpretate dalla società tutta per riportarla alla forma originaria, docile e assuefatta, priva di volontà e istinti propri. Si rinnovano sul suo corpo pratiche violente esercitate negli anni a danno delle donne, in epoche antiche e moderne, prima fra tutte la diagnosi di isteria attribuita per secoli dalla scienza alle donne ribelli agli schemi patriarcali. Il racconto è crudo e l’allegoria donna/animale intensa, anche se molti significati restano ovviamente in ombra in un testo estrapolato. Il racconto non può che rimandare a situazioni in cui con ogni mezzo, dalle operazioni più sottili di emarginazione e sfruttamento a quelle eclatanti dello stupro e del femminicidio, la società opprime la donna , imponendo schemi sessisti e patriarcali. Il testo si impone per la crudezza e il realismo delle immagini e obbliga a riflessioni assai attuali. (MANOLA FREDIANI)
La luna era grande e bianca. Entrò dalla finestra nel corpo chiamato Alice.
La frase riportata cela in sé la verità di questo racconto; la verità dei giorni nostri. Sotto la luce della luna siamo solo corpi spogli, vuoti, ormai privi di luce propria, di quella luce che un tempo li illuminava. Dal racconto emergono i controsensi, gli ossimori di cui si nutre la società in cui viviamo; corpi vuoti, privi di vita, curati da un medico dell’anima, che è esattamente l’invisibile, impalpabile per eccellenza. Vedere era capire. È palese che una delle mancanze più grandi sia la comprensione, in tutti i sensi in cui la comprensione può essere calata. Non è compreso il diverso, ma viene al contempo esasperato, non è compreso ciò che accade ad Alice, ma viene comunque rifiutato. Ogni giorno siamo spinti, indirizzati da immagini, messaggi, esempi ad essere diversi da ciò che siamo, siamo spinti talmente al largo da perderci. (DAIANA ONGARI)
Oana Rodica Alexandrescu
Parole sans langue
Il racconto, scritto in maniera colta e attenta, fa riflettere sull'importanza della comunicazione per vivere. La lingua è il segno concreto, fonico e grafico, per interrelazionarsi con gli altri, senza i quali noi,"animali sociali" (secondo la definizione aristotelica), non potremmo esistere. Come corollario, il racconto suggerisce anche riflessioni sul tema del rapporto tra parola e pensiero. Oggi le neuroscienze dimostrano la diretta consequenzialità tra capacità di pensare e ricchezza lessicale, denunciando l'impoverimento logico - linguistico di gran parte della popolazione. Il racconto rende felicemente il tema, dimostrando dell'autrice la buona padronanza linguistica, la capacità di catturare l'attenzione del lettore, l'utilizzo di uno stile diretto ed elegante. (ANGELA FLORI)
La vividezza con cui l’autrice descrive la confusione, la frustrazione e la disperazione della protagonista permette ai lettori di immedesimarsi profondamente nel personaggio. La lotta interna della protagonista, espressa attraverso sensazioni fisiche ed emotive, rende la narrazione personale e coinvolgente. Il racconto esplora magistralmente il tema della lingua non solo come strumento di comunicazione, ma anche come mezzo per plasmare il pensiero e l'identità. La perdita della lingua da parte della protagonista simboleggia una perdita di sé, evidenziando il ruolo vitale della lingua nella costruzione della realtà personale e nella connessione con il mondo esterno. Questo racconto è un esempio brillante di come la letteratura possa esplorare la natura del linguaggio e dell'essere. (ELISA BELLERO)
Riesce a rendere perfettamente quelle che verosimilmente possono essere le particolari condizioni, il senso d’impotenza e in generale le sensazioni di una persona gravemente menomata da un incidente, la difficoltà o l’incapacità di esprimersi, farsi capire e capire chi ci circonda, e come una tale situazione possa divenire insostenibile e generare la volontà di darsi per vinti. Così, la protagonista abbandona la vita, semplicemente decidendo di “lasciarsi morire”. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Grande inventiva e bellezza di linguaggio si equivalgono in questa storia, dove il realismo e la metafora si sovrappongono in un racconto straordinariamente efficace. Il risveglio dal coma rivela pian piano la cancellazione della memoria linguistica e di ogni significato attribuito a termini universalmente conosciuti e consolidati. Nonostante la protagonista sia in pieno possesso delle capacità cognitive la sua comunicazione è regredita, secondo l‘interpretazione della scienza, ad una lingua primordiale fatta di suoni gutturali che, nella intenzione della donna, mantengono un significato preciso, cui non intende rinunciare. I tentativi di reinserire la connessione fra le parole e il loro senso falliscono, l‘operazione ha risultati minimi e come contrappeso la progressiva perdita di un linguaggio che la donna riconosce come suo. La tragica scoperta porta a una decisione estrema e, nel lungo sonno cui lei si affida si può intravedere la fine di una società condannata a una nuova torre di Babele. (MANOLA FREDIANI)
Silvia Belcastro
Il mondo in cui tu parli
Una donna anziana si isola dal mondo rifiutando il contatto con ogni sostanza artificiale creata dall’industria, ma è una ricerca di purezza impossibile da realizzare. La sua interlocutrice prova sgomento per la fede della donna, incrollabile nonostante l’evidente irragionevolezza. Un breve racconto che pare il brano di un testo più lungo, nello stile della scrittrice citata all’inizio (Christa Wolf). Come nei lavori della scrittrice tedesca nel testo è dominante la descrizione dei particolari più minuti dell’esistenza. Ogni cosa della vita quotidiana diventa un segno che dà alla realtà vissuta un significato fortemente politico: come, ad esempio, le parole tecniche evidenziate in corsivo che denunciano la perdita di umanità della nostra civiltà. (VINCENZO REZZUTI)
Il racconto esplora la solitudine e l'alienazione, con un focus sulla difficoltà di comunicare e comprendere la realtà soggettiva. L’autrice pone l'accento sulla ricerca della protagonista di un linguaggio adatto a esprimere la sua esperienza, evidenziando il ruolo cruciale delle parole nella forma e nella percezione della realtà personale. La prosa del racconto è ricca di metafore e immagini vivide, creando un ritmo narrativo che riflette lo stato emotivo della protagonista. "Il mondo in cui tu parli" è una riflessione incisiva sull'alienazione e sul potere del linguaggio. La descrizione della sensibilità del corpo della protagonista alle sostanze chimiche, suggerisce anche una connessione profonda e personale con le questioni ambientali e la salute. (ELISA BELLERO)
Sezione E: Poesia
Mariasole Ariot
Ditele l'assenza
La voce di Mariasole Ariot non riesce a non essere poetica. Persino quando si veste di prosa, come accade in questi due capoversi anaforici di media lunghezza. Voce unica, inconfondibile, è lirica e struggente senza mai pronunciare la parola “Io”. (DAVIDE ORECCHIO)
L’incessante anafora del “Ditele” e la scelta della forma della prosa imprimono a questo testo un ritmo ossessivo che ne sottolinea il carattere di urgenza. Impossibile non prenderlo sul serio, soprattutto se “la parola si misura in grammi e non in metri”, “la soglia è tutto questo vedere e “i pianeti quando non cadono è perché cedono”. (FERNANDO DELLA POSTA)
Una poesia-in-prosa, basata su un martellare ossessivo di anafore e su un accumulo di brevissime frasi, separate solo dalla virgola e affollate da segni di morte e di dolore. (SERGIO PASQUANDREA)
In questa parossistica richiesta di comunicazione verso un’altra che è assente e a cui ci si può rivolgere solo per interposta persona l’autrice abbandona la versificazione tradizionale per approdare a un canto continuo e disperato. L’assenza cantata, però, più che assenza dell’altra è assenza del senso della parola, e il tentativo di dire del poeta diventa un cantare a vuoto, la ripetizione infinita di parole che ritornano suono e verso primordiale, con quel “ditele” che sembra moltiplicarsi fino a diventare mantra. (VINCENZO REZZUTI)
Versi ipermetri che sperimentano con effetti interessanti, avviluppandosi su se stessi, incalzanti e dilanianti, ossessivi e rassicuranti, in un imperativo che si ripete e si impone, riproponendosi quasi a spirale. (DAVIDE TOFFOLI)
Un testo molto articolato che si snoda principalmente attraverso la figura retorica dell'anafora. Nella ripetizione ad inizio di ogni frase di quel "ditele" risiede la forza evocativa della poesia. L'autrice esalta il suo slancio in modo peculiare ed imprime un marchio distintivo al suo moto interiore che, a tratti, diventa anche moto di chi legge la poesia. Potremmo definirlo quasi "un testamento spirituale" dell'autrice. Un intento comunicativo efficace rivolto ad una non meglio definita destinataria che non necessariamente deve trovare personificazione. Nella lettura e rilettura ho avuto la sensazione che un testo di questo genere si adatti, più di altri, in modo perfetto alla recitazione. Ad un primo approccio, questa composizione potrebbe sembrare troppo carica di significati e dunque non sempre di facile comprensione. Ma non appena si supera la superficie ci si imbatte in un mantra che conduce il pensiero a concetti individuali ed universali. "Ditele che un bambino urla", "ditele l'assenza", "ditele che il bianco che ho ingerito si è depositato sulle dita, ditele che grida, ditele che la via lattea ci attraversa in diagonale". Un Caos di emozioni nel senso di materia in commistione con l'esistenza umana nella quale "esiste anche l'assenza". (ANNALISA LUCINI)
Elena Panzera
Diceva Ibraheem
Poesia dal tono marcatamente narrativo, che affronta un tema delicato (il conflitto israelo-palestinese) scansando la retorica e la denuncia esplicita, ottenendo così una particolare efficacia. (SERGIO PASQUANDREA)
Ricordano un po’ la poesia americana, Ferlinghetti e Corso in particolare, questi versi che parlano di una scala bianca che esiste solo nell’immaginazione e che forse è la libertà. In una Palestina ferita a morte e nonostante questo meta di turisti che cercano un messaggio cristiano diventato miraggio, l’autrice cerca di vedere oltre la rappresentazione creata per il business trovando l’autenticità solo nel rapporto con un ragazzo di nome Ibraheem. (VINCENZO REZZUTI)
Un testo dalle caratteristiche principalmente narrative, che crea atmosfere serrate e angoscianti e situazioni ambientate nella Betlemme dei giorni attuali. (DAVIDE TOFFOLI)
Un'alternanza di presente e passato che attraverso il primo verso introduce la storia raccontata in forma poetica. La rievocazione dell'immagine della scala bianca produce l'effetto di un leitmotiv che crea coinvolgimento emotivo. Molto significativo l'ultimo verso: E la scala, la scala era lì. (ANNALISA LUCINI)
Andrea De Luca Italia
crocifesso
Sconcertante libertà abusata, urlata al limite estremo, al massimo potenziale blasfemo, motivata se non concessa dal gesto di Uno che dà scandalo all’uomo di ogni tempo: l’autoconsegna al linciaggio, l’apparente resa, l’atroce destino che delude chi si illude d’altro fine. Ci sta. C’è un coraggioso dire umano che reclama rispetto, storia di rabbie in un capolavoro di musica e passione. Una partita a scacchi tra assonanze e consonanze che fa valere la candela. (LUIGI IANZANO)
Con una ritmica che sembra ispirarsi ad Amelia Rosselli, piena di pause che richiederebbero una lettura ad alta voce per essere pienamente comprese, l’autore amaramente ricorda i legami che ci univano al mondo, veri e propri chiodi che sono stati divelti dolorosamente “dal prolasso degli eventi”. A loro, i legami perduti, occorre fornire una casa (la casa dei ricordi?), “una reggia di stupide stimmate” che consenta di dar loro senso e risanare le fratture del passato. (VINCENZO REZZUTI)
Testo che si caratterizza innanzi tutto dal punto di vista formale, per l'uso intensivo di rime (sia a fine verso, sia al mezzo), allitterazioni, metafore e giochi di parole, come quello del titolo. Un apparato retorico che però non è fine a sé stesso, bensì è messo al servizio della percezione sghemba e obliqua di un mondo sul punto di collassare, il cui senso di può recuperare solo nelle fratture. (SERGIO PASQUANDREA)
Sapiente uso delle assonanze, delle rime interne, dei versi franti; lavoro suggestivo che riesce ad integrare bene le sonorità e le immagini. (DAVIDE TOFFOLI)
La licenza poetica del titolo esprime la pienezza dei versi che si snodano nell'utilizzo di termini figurativi. Nel verso libero, l'utilizzo di alcune rime (lenti, eventi, freni, anni) armonizza il ritmo del verso. Ho apprezzato molto la sintesi dei concetti e la ricerca dei termini più adeguati per creare la struttura poetica. L'autore vuole in modo dirompente richiamare l'attenzione su alcuni lemmi, che ad un primo approccio potrebbero sembrare provocatori ed appartenenti ad un gergo comune, ma non è così. L'intento principale è quello di incuriosire e consentire a chi legge di entrare nel vivo delle allegorie utilizzate. "Fesso" nel suo significato di spaccatura, "incrinatura", "rottura" e "chiavano insieme" nel senso di "fissare", "inchiodare" insieme. Questo fanno i chiodi, intesi forse come i pensieri, i rompicapo che se creano fratture, nello stesso tempo diventano fissazioni per poi passare in secondo piano. Molto interessante l'ultima parte della poesia. In quel "saldo di fratture" c'è il richiamo al significato del titolo "Crocifesso". Come a dire, evolviti dalla tua condizione di afflizione "arrenditi" al conflitto interiore e trova un nuovo senso proprio nel saldo di fratture. (ANNALISA LUCINI)