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Premio Letterario Zeno - XII Edizione

Benvenuti su Zeno, progetto legato all’Associazione omonima, volta a promuovere la lettura, la scrittura e la cultura in generale.
Primo obiettivo del progetto è quello di estendere un concorso letterario di prosa e poesia edita e inedita.
Il Premio ha già avuto tra i giurati Simona Vinci (autrice per Einaudi, Rizzoli e vincitrice del Premio Campiello 2016), Aldo Nove (scrittore e poeta che ha pubblicato per Castelvecchi, Einaudi, Laterza, Bompiani), Diego De Silva (giornalista, sceneggiatore e scrittore presso Einaudi, Mondadori, Rizzoli), Giuseppe Culicchia (scrittore, traduttore e saggista presso Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Laterza, Garzanti), Emidio Clementi (Rizzoli, Laterza, Playground, Fazi, DeriveApprodi), Andrea Tarabbia (scrittore per Mondadori, Bollati Boringhieri, Transeuropa, Aracne, Il Saggiatore e vincitore del Premio Campiello 2019), Carola Susani (Feltrinelli, Minimum Fax, Giunti, Gaffi), Giulia Caminito (Giunti, Bompiani), Davide Orecchio (Bompiani, Gaffi, il Saggiatore).
La giuria della XII edizione del Premio Letterario Zeno coordinata da Emanuele Bukne (Edizioni Esi, Jota Project) e da Antonio Russo De Vivo (editor) e composta da Enrico Brizzi (Mondadori, Baldini & Castoldi, Laterza), Davide Rigiani, Paolo Casadio, Luigi Esposito Giardino, Renato Nicassio, Marco Scarlatti, Fausto Paolo Filograna, Michele Frisia, Natalia Guerrieri, Luigia Bencivenga (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Romanzi), Nicole Trevisan, Lucrezia Pei, Ornella Soncini, Elisa Bellero, Carlo Nello Ceccarelli, Angela Flori, Leandro Lucchetti, Valeria Micale, Livio Milanesio, Alessandra Serena Capelletti (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Racconti), Mariasole Ariot, Eleonora Villa, Sergio Pasquandrea, Luigi Ianzano, Fernando Della Posta, Valentina Cottini (vincitori delle precedenti edizioni, Sezione Poesia), Marcello Greco, Luigi Di Carluccio, Giuseppe Feola (Jota Project), oltre che da scrittori e giornalisti, assegnerà i premi, a suo insindacabile giudizio, alle opere ritenute meritevoli.
Il Giurato d'Onore
Enrico Brizzi
Enrico Brizzi è nato e cresciuto a Bologna.
Non ancora ventenne, ha esordito con Jack Frusciante è uscito dal gruppo (1994, da cui è stato tratto l’omonimo film del 1996). Vero e proprio fenomeno di costume, il libro ha influenzato un’intera generazione. Nel corso della carriera Brizzi si è avvicinato a diversi generi letterari con (tra gli altri): il romanzo pulp Bastogne (1996), il libro per ragazzi Paco & il più forte di tutti (1997) e le cronache di viaggio Nessuno lo saprà (2005), Il pellegrino dalle braccia d’inchiostro (2007), Gli psicoatleti (2011), In piedi sui pedali (2014). Brizzi ha collaborato con testate come L’Unità, Corriere della Sera e L’Espresso, e ha messo a frutto la passione per la musica realizzando dei reading/concerto partendo dalle sue opere; tra i più recenti occorre citare La vita quotidiana in Italia (tratto dal libro La vita quotidiana in Italia ai tempi del Silvio, 2010), realizzato in collaborazione con la band bolognese Yu guerra e pubblicato nel 2011.
Vincitori e Finalisti
Sezione A: Romanzi Editi
Mattia Grigolo
Gente alla buona
La “gente alla buona” di Mattia Grigolo è quella di una Bassa Padana rarefatta ed alienata, che dà le spalle al “Grande fiume” di Guareschi e Zavattini per specchiarsi nelle geometrie dei capannoni e nei rituali del lavoro. La solidarietà della civiltà agricola è solo un ricordo; negli anni del boom Pasolini ha officiato il funerale della civiltà agricola, e ormai anche al limitare delle campagne “le villette a schiera si abbracciano l’una addosso all’altra, i panni dimenticati sugli stendini“. “Ci sente i fantasmi in quella quiete”, e l’umanità non conforme, diversa, inquietante, viene relegata ai margini come succede a Giovanni, il bambino “col braccio sifulo”, nato in un contesto profondamente disagiato e bollato da tutti come matto. Una vicenda che si dipana attraverso i decenni, inchiodata in quella Lombardia profondissima di nebbie alla Brera e maschere stile Tognazzi ancorate al bancone del bar. Mattia Grigolo accompagna il lettore fra le epoche e alla scoperta di diversi punti di vista con una soluzione strutturale di decostruzione e della trama, che ci restituisce frammentata in partizioni di diverso taglio e pasta narrativa. In questo senso, vince la scommessa di modulare il romanzo ora come micro-storia di famiglia, ora come saga collettiva della provincia totale, uno scomodo luogo dell’anima che, tuttavia, fin dagli anni ’80 ha fornito energie alla causa della narrativa giovanile non meno di qualsiasi città metropolitana. (ENRICO BRIZZI)
La provincia, la provincia, sempre la provincia. Sempre la stessa - e mai la stessa - è la protagonista principale del bel noir di Mattia Grigolo insieme alla nebbia. Il paese della bassa padana è il mondo dove tutto è immobile e tutto, all’improvviso, cambia: “Il loro mondo finisce lì, nei pochi metri quadrati dentro cui sono recintati loro, la cascina e il paese intero”. Perché il paese è, con una metafora azzeccata (e non è l’unica), “una stanza”. Il romanzo si sviluppa su due piani temporali che potrebbero, come invece accade, non essere precisati, e indicati semplicemente con un “prima” e un “dopo”. Le date nei paesi della bassa non servono, indicando il tempo comunque immobile e circoscritto del luogo, la ruota generazionale che gira, il vincolo ineludibile della terra ove si nasce e si resta; indicando gli anni trascorsi e il passaggio dei ragazzi all’età adulta, alla genitorialità, alle responsabilità. Sono cresciuti sì, ma ancora amici, uniti dal segreto mai confessato di una terribile memoria: due omicidi. Scrittura asciutta, essenziale, che ricorda l’effetto d’una vecchia pellicola graffiata dall’uso e dal tempo, sviluppata per pennellate nervose che sanno di nebbia. Tutto è intriso dalla nebbia, avviluppato dalla nebbia, che s’incarica di custodire i riti e i miti del paese ma, soprattutto, le ombre e le voragini che si agitano nelle persone, “gente che non sa cos’è essere felici perché non sanno cos’è il sole.” (PAOLO CASADIO)
Per la capacità di animare personaggi come Brando, Sara, Larcher, il Toni, Sander e Marione, fuori dal tempo e sconnessi dal resto del mondo, e di tessere un doloroso legame tra le generazioni. Per la descrizione delle notti in pianura, nebbiose, gelide e umide in cui l’unico faro sembra essere l’insegna del bar. Per una scrittura che riecheggia quella di Daniele Benati e Paolo Nori e che richiama le atmosfere cinematografiche di Cinzia Bomoll. Per la capacità di tratteggiare con precisione atmosfere, toni e colori di un piccolo, chiuso, mondo al confine da cui fuggire sembra impossibile. (NATALIA GUERRIERI)
«Gente alla buona» è una storia che si muove nel tempo e rimane ferma nello spazio. Lo spazio è quello di un paese che è tutti quei paesi della Bassa Padana «sparsi come coriandoli», come scrive Grigolo. Le persone nate lì, anche quando se ne vanno, in verità rimangono. Il tempo invece si muove. È una storia fatta di decenni disposti in una struttura cronologicamente non lineare, entro la quale i personaggi invecchiano, ringiovaniscono, invecchiano di nuovo. Al centro geometrico di questa struttura c'è un segreto, delle morti misteriose che Grigolo avrebbe potuto sviluppare banalmente in una trama poliziesca, ma invece, e questa è la cosa che mi è piaciuta di più, ha preferito misurare con consapevolezza le parole per raccontare, nei dialoghi, nella voce narrante e negli episodi che narra, una quotidianità che non passa per le strade del canone poliziesco, e che fa invece di questo romanzo una storia di colpe collettive da scontare. (DAVIDE RIGIANI)
Sandro, Toni, Mario, i loro figli Brando, Sara e Larcher, il matto Giovanni, Michele figlio di immigrati del Sud, il prete Maurizio, sono mostrati nei diversi momenti di una vita necessariamente circolare trascorsa nello stesso identico luogo, un anonimo paese di una provincia lombarda, tra i campi, la chiesa e il bar di Anna, centro di tutto e unico luogo di consolazione. Come se fossero anime dannate che devono scontare la propria condanna non riescono a fuggire altrove. Persino i figli che vanno a vivere lontano si sentono costretti a ritornare per Natale e nel momento in cui rimettono piede in paese è come se non se ne fossero mai andati. Il romanzo procede a episodi che non seguono una sequenza temporale precisa, con frequenti flashback e salti temporali tra un capitolo e l’altro. L’autore descrive un’esistenza cupa, priva di speranza, la fatica di vivere e un vago senso del dovere che obbliga a fare qualcosa senza sapere bene perché. È una vita che si riproduce identica di genitori in figli e di Natale in Natale, apparentemente in eterno, dove il rancore e i sensi di colpa impediscono qualsiasi distacco. A rompere apparentemente questo equilibrio sono due eventi inattesi, la morte e forse l’assassinio di Giovanni e di Michele (ciò che è veramente accaduto verrà rivelato solo verso la fine del romanzo), che sembrano cambiare l’esistenza di tutti. Il ciclo dopo una breve pausa però riprenderà e nella vita di tutti ci sarà un nuovo motivo di rimorso, ricordato collettivamente a Natale. Scritto con uno stile che ricorda molta grande letteratura italiana del dopoguerra, questo ritratto della vita di un paese della provincia italiana per il suo pessimismo ricorda il Federigo Tozzi di “Tre croci”. La citazione di Raffaella Carrà in esergo con amara ironia vuole forse mostrare ciò che sono stati, dal punto di vista della cultura popolare, gli anni del dopoguerra in Italia: una fuga dal dolore appena vissuto attraverso i miti della televisione. (VINCENZO REZZUTI)
Con una sintassi immediata, una scrittura diretta e spietata che evoca i grandi narratori italiani del Novecento (Fenoglio in primis), una struttura che regala le suggestioni del cinema contemporaneo, Mattia Grigolo racconta la provincia italiana, una provincia rurale di lavoro e segreti, di padri legati alla terra e figli che la lasciano, di ferocia e nostalgia. Tutto è ben incarnato da un linguaggio che si traduce in una cattiveria scaturita dall’ignoranza e in un senso di appartenenza dettato dall’inconsapevolezza. L’inquietudine personale si somma al ricordo e l’eterno ritorno del Natale finisce per sottolineare qualcosa che, purtroppo, si è inceppato per sempre. Nella consapevolezza che a rimetterci sono sempre i più fragili, quello che resta è una memoria destinata a tormentare tutti, per rabbia o per amore. (DAVIDE TOFFOLI)
"Gente alla buona" è una storia che prende forma in un mondo desolante di provincia, dove lesperanze si fondono con la consapevolezza di una realtà cruda che le soffoca. La prima metà del romanzo è un quadro di disfacimento e rassegnazione, dove al centro sono posti "il paese e i suoi codici, la sua forma, l'amalgama di tutti quando tutti sono uno solo";. Molti sono qui i richiami ai segreti e agli errori del passato, in un'atmosfera a tratti nebulosa in cui il lettore può smarrirsi. La seconda metà ricostruisce gli eventi rimasti nell'ombra della prima, facendo chiarezza sulle vite dei personaggi e lasciando esplodere il dramma. Una scrittura ruvida che, più che raccontare, dipinge la realtà così com'è con un susseguirsi di immagini vivide e brutali. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Le motivazioni della giuria popolare:
"Gente alla buona" di Mattia Grigolo ci porta dritti nel cuore della provincia lombarda, un mondo fatto di silenzi pesanti e segreti che tutti conoscono ma nessuno dice ad alta voce. Grigolo racconta una realtà che sembra semplice, ma che nasconde un bel po' di contraddizioni e ambiguità morali. Le atmosfere ricordano quelle de "La luna e i falò" di Cesare Pavese: tornare a casa non è mai un conforto, piuttosto un modo per riaprire vecchie ferite che non si sono mai davvero chiuse. Come diceva Pavese, "Un paese ci vuole" anche se da quel paese vuoi scappare. Il punto forte del romanzo è la tensione narrativa: Grigolo la tiene alta senza mai strafare, usando una prosa asciutta, frammentata, che semina indizi con molta calma. Niente risposte facili qui: il finale non risolve niente, anzi, lascia domande ancora più grandi di prima. Grigolo non cerca di chiudere il cerchio o guarire le ferite del suo mondo, preferisce lasciarle aperte, farle risuonare più forte. La frase "Non ce l’aveva nessuno di noi, quella testa lì, ma questo non significa che abbiamo una colpa. È solo che ce la sentiamo, la colpa, e ci dobbiamo fare i conti, ma non ce l’abbiamo" è perfetta per spiegare questo senso di colpa che non è mai del tutto giustificato, ma che ti porti dietro lo stesso. Cosa non funziona? Alcune scelte stilistiche sono un po' spigolose. Grigolo non spiega, suggerisce. Usa simboli e metafore che a volte risultano un po' troppo ermetiche, e questo può rendere frustrante la lettura per chi vuole una storia più chiara e lineare. Certo, è una scelta precisa e coerente con il tono del libro, ma non è per tutti. Alla fine dei conti, "Gente alla buona" è un romanzo sincero, sia nello stile che nei temi. Non consola, non ti accompagna per mano, ma ti costringe a pensare. Chi ama le storie tradizionali e rassicuranti potrebbe trovarlo ostico, ma chi è pronto a mettersi in gioco troverà un libro che lascia il segno. Non è una lettura semplice, ma di certo vale lo sforzo. (LUCA MURANO)
È un romanzo che, più che raccontare una trama, ci invita a fare una riflessione profonda sul modo in cui viviamo e ci relazioniamo con gli altri, spingendoci a vedere la bellezza e la verità anche nelle pieghe più nascoste della vita quotidiana. La storia ruota attorno a un gruppo di giovani che si trovano a fare i conti con la loro condizione di marginalità, in una società che sembra non offrire loro le opportunità che avevano sognato. La narrazione non si concentra su eventi clamorosi o svolte improvvise, ma su momenti di vita ordinaria, che, pur nella loro semplicità, rivelano l'animo profondo dei personaggi. Ciò che distingue "Gente alla buona" è l'approccio intimo e, a tratti, delicato con cui Mattia Grigolo ci racconta le vicende dei suoi protagonisti. Grigolo non si preoccupa di raccontare la storia di persone straordinarie o di eventi epici, ma si sofferma sulle esistenze di "gente alla buona", persone normali, ma con sogni, paure, speranze, che purtroppo spesso vengono ignorate o marginalizzate dalla società. È proprio in questo contrasto che si nasconde la bellezza del romanzo: l'autore riesce a restituirci un'umanità cruda e autentica, che non si appella a facili soluzioni o ottimismi, ma che purtroppo – o forse felicemente – è anche quella che permette una comprensione più profonda dell'animo umano. Lo stile di Grigolo è sobrio ma affilato, riuscendo a descrivere con poche parole il disorientamento di una generazione che sembra non trovare più un punto fermo. La scrittura, pur essenziale, è capace di entrare nei dettagli che fanno la differenza: la sensazione di attesa, il senso di frustrazione, l’intima connessione tra i personaggi che cercano di mantenere un legame in un mondo che sembra disgregarli. Le dinamiche tra i personaggi sono dipinte con uno sguardo disincantato, ma senza mai cadere nel cinismo. Non c’è giudizio, ma un invito a osservare con occhi nuovi le persone che ci circondano. La genuinità di chi è "alla buona" non è solo un tratto dei protagonisti, ma è anche un tema centrale del libro: la bontà come resistenza, come risposta a una società che tende a ignorare ciò che non è visibile o di facile consumo. Ciò che emerge, leggendo "Gente alla buona", è una visione del mondo più frammentata, ma anche più vera. Grigolo non ci racconta una favola, ma ci fa vedere un mondo di persone che lottano per trovare la loro strada, eppure riescono a restare fedeli a se stesse, in una continua ricerca di equilibrio. Il romanzo offre uno spunto di riflessione sulla condizione sociale ed esistenziale dei giovani, senza mai cadere nella retorica, ma con un sguardo profondo e mai banale. In conclusione, "Gente alla buona" è un libro che parla di vulnerabilità e resistenza, di sogni e disillusioni, ma anche di legami che, pur fragili, sono fondamentali. Un'opera che, pur non cercando il clamore, lascia un segno grazie alla sua capacità di cogliere l'essenza delle piccole cose, quelle che rendono un'esistenza significativa anche quando la vita sembra non offrire molto di più. (DAIANA ONGARI)
Il romanzo, pur narrando vicende accadute dal 1965 al 2019, si libera dalle catene temporali adottando una narrazione cinematografica, nella quale la videocamera si focalizza, di volta in volta, sulle vite di Gente alla buona, in particolare quelle di Toni, Sander e Mario e dei loro rispettivi figli Sara, Brando e Larcher, in cui i padri trascorrono quasi tutto il loro tempo libero a ubriacarsi al bar Anna e i figli vivono la loro gioventù negli anni ’90 tra spensieratezza apparente in sella alla bicicletta. La scomparsa di Michele sconvolgerà la piccola comunità, mettendo in crisi l’amicizia, l’amore, il sospetto e il pregiudizio ma, come accade spesso nella vita reale, la verità verrà a galla per mettere ordine al disordine del vivere civile. (PASQUALE BRASCHI)
Cosimo Buccarella
La più bella di sempre
Il racconto dell'aspro dopoguerra italiano attraverso gli occhi di una banda di ragazzi allegri e intelligenti: quattro amici per la pelle, una ragazza splendida ed enigmatica, un delitto senza colpevoli. La narrazione scorre pulita e intrigante, tra luoghi reali della costa ionica salentina, Santa Maria al Bagno e Santa Caterina, e paesaggi umani disastrati. La desolazione e la devastazione di quegli anni drammatici, all’indomani dell’occupazione della Puglia da parte dell’esercito inglese, sono rese fedelmente dalle descrizioni attente dell’autore. Lo stile di Buccarella è picaresco, intriso di avventura, e imprime alle azioni di questi ragazzini salentini un’agilità e una freschezza che rimandano alle pellicole di Monicelli o alla Via Pal di Ferenc Molnàr. Nella trama si alternano, sovrapponendosi, più narrazioni che, pur non integrandosi, si stratificano. Si procede soprattutto per antitesi: legalità e illegalità, verità e menzogna, odio razziale e compassione, guerra e pace, miseria e agiatezza, vendetta e perdono, amore e odio. Un romanzo, a tratti crudo, dove nell’animo dei personaggi prevalgono comunque gli ideali di giustizia e di rettitudine. Come accade, del resto, al sentimento dell’amore e dell’amicizia che sono l’elemento vitalizzante di cui ogni singola pagina del romanzo si anima e si nutre. (DAVIDE TOFFOLI)
"La più bella di sempre" è un romanzo storico che sfiora talvolta il genere del diario e del documentario, ma assembla anche situazioni da thriller di spionaggio e da romanzo di formazione. Qualunque sia il genere, però, questa è essenzialmente una bella storia, appassionante e ricca di valori positivi, con personaggi ben caratterizzati che sanno farsi strada nel cuore dei lettori. Sul piano dello stile, il romanzo riesce a mantenersi scorrevole nonostante i temi impegnativi trattati e le digressioni storiche. In alcuni capitoli, non è tuttavia chiaro come la voce narrante, che si identifica con Tommaso e racconta in prima persona dalla sua prospettiva, possa a tratti descrivere nel dettaglio scene a cui Tommaso non ha assistito, dimostrando di conoscere i pensieri e le emozioni di tutti i personaggi coinvolti. Nel complesso, un’efficace ricostruzione di un mondo segnato dalla guerra, dove convivono drammi e speranze, con un certo "ronzio di disperazione" a rappresentare il “rumore di fondo” delle esistenze dei protagonisti. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Per la descrizione di un Salento che non esiste più, in cui «l’elettricità era diffusa solo nelle città, e le notti nei paesi e in riva al mare erano buie per davvero». Per la scelta di mettere in luce una delle realtà forse meno raccontate della seconda guerra mondiale, l’occupazione dell’esercito inglese della Puglia e l’arrivo in queste zone di profughi ebrei e jugoslavi. Per la capacità di unire romanzo storico e romanzo giallo, inserendo, dopo la fine della guerra, un caso di indagine per omicidio. Per la capacità di raccontare l’amicizia fra quattro ragazzini che vogliono scoprire la verità e scagionare un amico. (NATALIA GUERRIERI)
Lo speciale scenario di questa storia è un campo che in Salento nel 1946 ospita rifugiati ebrei. Com'è facile immaginare si tratta di un terreno di traffici sotterranei e interessi contrastanti, ed è in mezzo a questi contrasti che viene rinvenuto un corpo senza vita. Un giovane ebreo polacco viene sbrigativamente accusato dell'omicidio, ma quattro ragazzi sulla soglia dell'età adulta si danno da fare per scagionarlo, e così facendo mettono in moto una trama fitta e popolata di personaggi che ha gli elementi del poliziesco, del romanzo storico e del romanzo di formazione. In «La più bella di sempre» l'epoca transitoria e incerta dell'adolescenza dei quattro amici rivela in trasparenza l'epoca transitoria e incerta dell'Italia del dopoguerra. (DAVIDE RIGIANI)
Operazione Slapstick era il nome in codice dello sbarco alleato a Taranto, avvenuto il 9 settembre 1943, che determinò la strategia angloamericana in tutto il fronte adriatico. Al successo dell’operazione dettero un rilevante contributo le forze militari italiane dislocate in Puglia, opponendosi alle truppe germaniche e impedendo sabotaggi di importanti strutture logistiche nonché distruggendo navi e aerei. Fu una scelta significativa - in assenza di ordini - di Resistenza, rappresentando una pagina poco nota di resistenza militare e civile al sud, sul fronte mediterraneo. E di resistenza si parla, nel romanzo di Buccarella: resistenza all’ingiustizia, all’insabbiamento della verità; ascolto della coscienza e raccolta della sua forza. Sono queste le pulsioni, le tensioni emotive che muovono e animano un gruppo di ragazzi decisi a salvare un loro amico, accusato d’un omicidio mai commesso. Salento e quindi sud, anni ’40, DP camp di Santa Maria al Bagno; DP, displaced persons, ovvero com’erano denominati dagli alleati i profughi indotti dal conflitto. Nel campo prima verrano portati gli slavi, poi si avvicenderanno gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio. Buccarella racconta, attraverso il classico meccanismo delle storie personali, una pagina scarsamente conosciuta della Storia. Romanzo d’ambientazione storica, un viaggio nel passato per, appunto, raccontare la Storia, magari quella meno nota o destinata all’oblio: ed è quindi ricerca, ricostruzione dell’epoca tramite dettagli realistici e accuratezza filologica. E per addentrarsi nella Storia occorre usare il passo lieve degli angeli, sennò si rischia di infrangere le cristallerie della memoria. Qui il lavoro di Buccarella, affrontando tematiche estremamente complesse – come fu per esempio l’Alya Bet’ – con interpretazioni un poco fantasiose, annota purtroppo imprecisioni che ne indeboliscono l’interessante architettura. S’aggiunge, ahimé, un editing a tratti distratto che ha lasciato errori fastidiosi e dettagli incongrui. La penna dell’autore è però sciolta, prolifica, spesso viscerale, e rende le oltre quattrocentocinquanta pagine veloci e coinvolgenti. (PAOLO CASADIO)
Questo romanzo ambientato nel Salento dell’immediato dopoguerra inizia con la vicenda di Paolo Congedo, desideroso di un’esistenza tranquilla ma costretto dagli Alleati vincitori a diventare il comandate (Mayor) di un campo che ospita prima profughi jugoslavi e poi profughi ebrei. Un poeta (non una figura di fantasia, ma lo stesso Vittorio Bodini citato in esergo) lo convince ad impegnarsi nella lotta contro i fascisti ancora attivi nella zona, che credono sia ancora possibile il ritorno del regime. Il difficile rapporto con gli inglesi vincitori, il rancore dei fascisti sconfitti, l’ancora diffuso antisemitismo, la mancanza di cibo e le case distrutte dai bombardamenti descrivono un periodo storico di cui si è narrato moltissimo, ma che riserva sempre qualcosa di ancora non detto. In questa ambientazione si inserisce la trama di un giallo. Giovanni, Marcello, Umberto e Tommaso, amici adolescenti, cercano di dimostrare l’innocenza di Samuele, accusato dagli inglesi di assassinio. Samuele è uno degli ebrei polacchi del campo profughi, diventato amico dei ragazzi italiani. Insieme a loro un’altra amica profuga, “la più bella di sempre”, Myriam, di cui tutti i ragazzi sono innamorati. È tentando un approccio con lei sul retro della sinagoga che Marcello scopre il corpo di Ilie Pakum, la vittima dell’omicidio. O almeno così pare. Il narratore è Tommaso, che ricorda il racconto fattogli da Paolo Congedo e i giorni vissuti con i suoi amici alla ricerca di una prova che scagionasse Samuele. La lettura di questo lungo romanzo vagamente picaresco è abbastanza piacevole. Lo stile è adatto a un grande pubblico che preferisce storie lineari e ben scritte. Alla vicenda di Samuele e a quella di Paolo Congedo se ne aggiungono altre, alcune sentimentali, altre storiche come l’esodo degli ebrei in Palestina. Gli eventi narrati si susseguono a ritmo sostenuto e invogliano ad andare avanti per scoprire come andranno a finire tutte le vicende contenute nel romanzo, che si intrecciano e vanno verso i rispettivi climax come prevede il genere. Molto ben delineati e credibili i personaggi. Accuratamente ricostruito il momento storico, raccontato anche con qualche inserimento di documenti d’epoca. (VINCENZO REZZUTI)
Le motivazioni della giuria popolare:
La più bella di sempre di Cosimo Buccarella ci immerge nel Salento della Seconda Guerra Mondiale, un luogo in cui la bellezza paesaggistica si scontra con le dure realtà di un’Italia divisa e ferita. La narrazione si sviluppa attorno a Paolo Congedo, un uomo comune che si trova a fronteggiare situazioni straordinarie, trasformandosi da semplice insegnante a figura centrale ne Campo profughi di Santa Maria al Bagno. Buccarella eccelle nel descrivere con vividezza ambienti e sensazioni. Passaggi come “Le fronde dei pini erano immobili e le stelle sfavillavano in un cielo limpido e scuro” restituiscono al lettore un senso di quiete rarefatta, spesso spezzata dall’incalzare degli eventi. Tuttavia, la forza evocativa del linguaggio non sempre è sostenuta da una struttura narrativa altrettanto solida. La trama procede a tratti in modo frammentario, con digressioni che, pur arricchendo il contesto storico, rischiano di appesantire il ritmo del racconto. I personaggi principali, sebbene ben delineati, non sempre riescono a emergere con sufficiente profondità psicologica. Alcune relazioni, come quella tra Paolo e la moglie Graziella, rimangono nell’ombra, lasciando al lettore il desiderio di una maggiore esplorazione emotiva. Tuttavia, vi sono momenti in cui l’intensità narrativa colpisce con forza: “Perché ormai, contiamocelo chiaro, chiunque vinca, noi abbiamo perso” è una frase che incarna perfettamente il senso di disillusione che pervade il protagonista. In generale, La più bella di sempre è un romanzo che, nonostante qualche difetto, offre una visione originale di un periodo storico complesso. Buccarella ha talento e, con una narrazione più equilibrata, potrebbe scrivere libri ancora migliori. Il romanzo si distingue per la sua capacità di evocare immagini intense e sensazioni profonde, anche se a volte sembra che l’autore abbia voluto includere troppe cose in una sola storia. Con un approccio più focalizzato e un maggiore sviluppo dei personaggi, La più bella di sempre avrebbe potuto raggiungere un livello ancora più alto. Tuttavia, rimane una lettura consigliata per chi è interessato a esplorare le sfaccettature dell’Italia durante la guerra, arricchita da una prospettiva unica e da uno stile narrativo che promette bene per il futuro dell’autore. (LUCA MURANO)
Un omicidio, un'accusa ritenuta ingiusta, un campo profughi, un gruppo di ragazzini danno vita a una vicenda che si svolge alla fine della seconda guerra mondiale in un Salento diverso da quello "da cartolina" a cui siamo abituati, ma altrettanto affascinante. Uno dei meriti da riconoscere a Buccarella è di certo quello di aver basato la stesura del romanzo su un buon lavoro di ricerca su una pagina della storia pugliese ancora poco nota. Inoltre, l'autore riesce a mettere in luce i sentimenti contrastanti dei personaggi, che agiscono tra degrado, povertà, bisogno di ideali e un legame di amicizia più forte degli orrori imposti da un feroce mondo "adulto", attraverso una scrittura fresca, non stucchevole e vibrante nello stesso tempo, riuscendo a rendere decisamente piacevole la lettura di un romanzo corposo. (SARA NOTARISTEFANO)
È un romanzo che intreccia temi di identità, desiderio e realtà, creando un racconto dove le emozioni più intime dei protagonisti si mescolano con le sfumature della vita quotidiana. Un’opera che riesce a catturare l’essenza della ricerca dell’amore e della bellezza in un mondo che spesso pare disorientante e frammentato. Il protagonista del romanzo è un giovane che, come molti della sua generazione, si trova ad affrontare le sfide del crescere, dell'affrontare il mondo degli adulti, e soprattutto di vivere un’esistenza segnata dall’intensità dei suoi sentimenti e dal desiderio di scoprire e affermare se stesso. In questo contesto, la figura della "più bella di sempre" diventa un simbolo non solo di bellezza esteriore, ma anche di un ideale inafferrabile che il protagonista cerca di comprendere e di possedere. Questo ideale, però, non si limita alla mera attrazione fisica, ma si trasforma in una ricerca di significato profondo, di un amore che vada oltre l'apparenza, che rappresenti una verità autentica e assoluta. Cosimo Buccarella scrive con una prosa elegante e riflessiva, capace di trasmettere le inquietudini e le aspirazioni del protagonista senza cadere mai nel patetico. La sua scrittura si muove con leggerezza tra i pensieri e le emozioni più recondite dei personaggi, riuscendo a rendere viva l’introspezione senza risultare pesante. Ogni parola sembra scelta con cura, e il ritmo della narrazione è calibrato, sospeso tra il flusso del pensiero del protagonista e la concretezza degli eventi che si susseguono. Ciò che colpisce in "La più bella di sempre" è la capacità dell’autore di esplorare, senza cedere alla retorica, la solitudine e la ricerca di un senso di appartenenza, temi universali che rivelano la fragilità di un mondo che sembra, a volte, non saper rispondere ai bisogni più profondi degli individui. La bellezza di cui si parla nel titolo, non è mai un concetto semplice, ma un mosaico di esperienze e di emozioni che, purtroppo, spesso restano non corrisposte o non comprese. Nel romanzo si intrecciano i desideri più puri con le disillusioni, creando una tensione che accompagna il lettore per tutta la lettura. Cosimo Buccarella riesce a far emergere l’ambivalenza dei sentimenti: da una parte c’è la ricerca di una perfezione ideale, dall’altra la consapevolezza della sua inaccessibilità. L'autore non propone risposte facili, ma ci accompagna in un viaggio che è, fondamentalmente, una ricerca personale, tanto dell’amore quanto di se stessi. Il libro non si limita a raccontare una storia d’amore o di desiderio, ma offre anche una riflessione più ampia sul mondo moderno, dove spesso le apparenze e le aspettative sociali impediscono alle persone di vivere pienamente la propria autenticità. La "più bella di sempre" diventa così un concetto sfuggente, che porta il protagonista a confrontarsi con i suoi sogni, le sue insicurezze e la sua difficoltà a relazionarsi con il mondo che lo circonda. In conclusione, "La più bella di sempre" è un romanzo che esplora la bellezza nella sua forma più pura e al contempo più problematica: quella che si nasconde tra le pieghe dei sentimenti, delle aspettative e delle fragilità umane. Con una scrittura ricca di immagini e sensazioni, Cosimo Buccarella offre una lettura che non si accontenta di narrare una storia d’amore, ma ci invita a riflettere su ciò che veramente conta nel nostro desiderio di bellezza, di verità e di connessione umana. (DAIANA ONGARI)
Il romanzo, ambientato in Puglia nel secondo dopoguerra, narra le vicende di quattro amici, Tommaso, Giovanni, Umberto e Marcello che, tra avventure adolescenziali ed esperienze di vita, si ritroveranno a indagare sull’omicidio di un rifugiato, al fine di dimostrare l’innocenza di Samuele, un giovane ebreo polacco scampato alla Shoah. Nell’indagine trascineranno anche il mayor Paolo Congedo, un uomo che desidera soltanto un’esistenza tranquilla. Ed è proprio durante le loro incursioni nel campo per profughi Displaced Persons Camp Number 34 che i quattro amici conosceranno La più bella di sempre, una ragazza enigmatica segnata per sempre dalle persecuzioni naziste. Un romanzo storico che si sviluppa come un romanzo giallo. (PASQUALE BRASCHI)
Sara Mazzini
Il mondo ci deve delle scuse
Il celebre romanzo “Furore” di Steinbeck è dominato, direi in maniera oppressiva e cogente, dalla miseria incombente, dalla rovina ambientale indotta dalle tempeste di polvere, dal perenne presentimento e paura della propria fine. Il protagonista del romanzo della Mazzini si chiama Ivan Furore. Forse un caso, forse no, viste le numerose citazioni letterarie e cinematografiche che arricchiscono il testo mazziniano. Voluto o no, gli aspetti comuni tra l’opera di Steinbeck e questa sono palesi: il degrado ambientale, la condizione di precarietà, la crisi sociale, le caste dominanti, il destino collettivo dei perdenti. E parliamo di un romanzo scritto alla fine degli anni ’30, alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale. Il romanzo della Mazzini si svolge ai giorni nostri, eppure pare che da allora i decenni della Storia siano trascorsi lasciandone i meccanismi inalterati o, semmai, riproponendoli dopo brevi e illusorie parentesi di speranza. Romanzo, questo, su cui riverberano le esperienze personali dell’autrice sui temi sociali, politici e ambientali, temi che concorrono a disegnare un’umanità e un mondo, quello odierno, sempre più poggiato su diseguaglianze e sfruttamento, su minoranze privilegiate e masse infime di miserabili sfruttati; in poche e semplici parole, un mondo poggiato sì saldamente, ma in bilico, sull’ingiustizia e che da essa trae linfa vitale per pochi, ma condannato al naufragio finale. Attraverso il microcosmo di Ivan, specchio del macrocosmo in cui (soprav)viviamo, giunge anche il messaggio politico che sorregge e nutre tutta l’opera: non possiamo restare indifferenti, semplici spettatori, davanti a tutti gli scempi che affliggono paesi e popoli del mondo, perché il mondo siamo noi. La scrittura impasta sapientemente dialoghi e testo senza interruzione, fluendo come un continuo pensiero della voce narrante. (PAOLO CASADIO)
Sara Mazzini delinea un microcosmo di provincia che riflette il macrocosmo fragile della nostra epoca intrisa di precarietà. Attraverso un pastiche linguistico suggestivo, che recupera, smonta e rimonta i romanzi e le musiche generazionali degli anni ’90, riproponendo i temi politici soggetti a rimozione, si spinge con spericolata lucidità dentro le sconfitte e le piccole vittorie, individuali e collettive, dei suoi personaggi indelebili. Un piacevolissimo racconto di formazione nel quale si avvertono influssi della Beat Generation ed echi di Donnie Darko. Con determinazione e coraggio, si affrontano tematiche attualissime come l’ambiente e il lavoro, che determinano, tra incomprensioni e suggestioni, la dimensione relazionale degli abitanti di una fittizia cittadina di provincia, Pigna Marittima. Riuscitissima la scelta di affidare la voce narrante ad una seconda persona singolare, che sembra tirare in causa direttamente il lettore, con il prezioso spirito critico di Ivan e con un tono decisamente accusatorio rivolto verso sé stessi, verso gli altri e verso il mondo nel quale si è immersi. (DAVIDE TOFFOLI)
Per la descrizione lucida e attuale di un mondo in cui domina la crisi, sia essa ecologica, sociale, o comunicativa. Per aver saputo mostrare, attraverso il microcosmo dei protagonisti, un universo lavorativo deregolamentato, un contesto climatico al collasso e una apparentemente insanabile distanza fra generazioni. Per la volontà di offrire, attraverso il podcast di Remi contro lo sfruttamento sul lavoro, uno spaccato sull’Italia della Gen Z (e non solo). Per l’invito, che il romanzo fa a chi legge, a porsi le giuste domande e a prendere posizione. (NATALIA GUERRIERI)
Nelle tematiche, quello di Sara Mazzini è un romanzo ipercontemporaneo, ma, prima di questo, è una voce stilisticamente spericolata. Il giovane protagonista, Ivan, è un narratore veloce e denso, per certi versi televisivo, declinato alla seconda persona singolare, fatto di gergo giovanile e di lessico social. Intorno a lui le voci di una famiglia disarticolata, di amici e di conoscenti, presentano sfumature di sopravvivenza al capitalismo che vanno dall'adeguamento al rifiuto fino all'attivismo, quest'ultimo nella forma di un amore lontano, fuori dall'Italia. Al fine di scegliere dunque qual è la misura del suo personale dissenso, Ivan procede a un'energica disamina del tempo presente e della sua vita. Questo, forse, fa di «Il mondo ci deve delle scuse» una sorta di romanzo di formazione, ma aggiornato all'epoca dell'emergenza climatica. (DAVIDE RIGIANI)
Un biglietto aereo arrivato per posta pone Ivan di fronte a un dilemma: riallacciare i legami dolorosi con la sua vita precedente e accettare di potere di nuovo soffrire oppure continuare a vivere con Remi, l’amico omonimo in cui si rispecchia, consumando i suoi giorni in lavoretti precari? Il rifiuto di identificare la propria vita con un lavoro (una delle parti migliori del libro è il podcast lavorativo dell’amico Remi – spassoso il capitolo sul Centro per l’Impiego), lo svanire delle illusioni di una vita da artista, la voglia di lottare per cambiare le cose e la dura presa d’atto della realtà sono i temi di un romanzo di formazione non convenzionale che descrive con efficacia la vita di chi approda all’età adulta nel mondo del neoliberismo realizzato. La storia è ambientata in un piccolo paese, l’immaginaria località di Pigna Marittima, esempio di un mondo di provincia copia ormai del mondo globale, dove non ci sono più caratteristiche locali e le persone sono prive di radici. Convinto dalla madre a lavorare all’accettazione di un B&B da lei gestito, Ivan partecipa controvoglia al processo di gentrificazione universale in cui tutte le case diventano alberghi e nessuna serve per vivere. Il disastro familiare dei genitori di Ivan è parte di questo contesto ed è un suo ulteriore motivo di fragilità. Assente il padre, troppo impegnato nella sua nuova famiglia, la madre estrosa rincorre a sua volta sogni (la scuola di danza, il B&B) riuscendo in parte a realizzarli, mentre Ivan non riesce a raggiungere la sua autonomia tagliando definitivamente il cordone ombelicale che lo lega a lei. Con uno stile che deve molto a Kerouac (non a caso Remi è il nome di uno dei protagonisti di “On the road”) e a Irwing Walsh, ma anche alla letteratura italiana degli anni ottanta-novanta e in particolare a Tondelli e a De Carlo, l’autrice riesce a descrivere la fragilità di una generazione. La narrazione con la seconda persona singolare sottolinea i continui sensi di colpa del protagonista, le sue incertezze e la difficoltà di farsi accettare, e di accettarsi, come io adulto. “Il mondo mi deve delle scuse” è una delle frasi che Remì in “On the road” diceva per giustificare i suoi piccoli furti. Da segnalare anche il coraggioso remake dell’Urlo di Ginsberg dove “le migliori menti della mia generazione” appartengono alla Generazione Z. ( VINCENZO REZZUTI)
Nel romanzo "Il mondo ci deve delle scuse" Sara Mazzini offre un affresco narrativo della parentesi epocale che stiamo vivendo, dalla prospettiva pessimista di un giovane ribelle, teso fra attivismo e rassegnazione. L’amore tormentato, filo conduttore principale, si intreccia con quattro temi portanti: il difficile ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, il rapporto conflittuale con gli adulti, il cambiamento climatico e i diritti degli animali. Abbondano nel testo i riferimenti al nostro tempo e i neologismi internettiani. La narrazione in seconda persona è una scelta non tradizionale che non causerebbe di per sé alcun ostacolo alla lettura, se non fosse per il suo non tanto favorevole connubio con l’assenza delle virgolette e di altri segni che circoscrivano il discorso diretto. Ma non sarà mica un’obiezione da boomer? Il messaggio che il romanzo consegna a questa generazione, reso esplicito dall’autrice, è che "ci sono altri mondi possibili oltre a quello che ci hanno addestrato a vedere". (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Le motivazioni della giuria popolare:
Sara Mazzini ci racconta con onestà e intensità i problemi e le incertezze di una generazione che sembra vivere con un freno a mano tirato. La storia si sviluppa in un contesto familiare e sociale dove i sogni fanno a pugni con la realtà, e il tutto viene narrato con uno stile diretto, a tratti tagliente, che non rinuncia a una sottile ironia. Un linguaggio che funziona, perché sotto l'ironia si intravede sempre una riflessione autentica. Mazzini ha un talento nel creare personaggi reali e situazioni nelle quali è impossibile non riconoscersi. C'è un senso di blocco, di ricerca di qualcosa che fatica ad arrivare, e lo senti tutto. "Ci sono altri mondi possibili oltre a quello che ci hanno addestrato a vedere", scrive, dando voce a un malessere generazionale che urla spazio e libertà. La scrittura sa essere evocativa, soprattutto nei momenti più tesi e nei dettagli più riusciti. Ad esempio, la scena in cui Ivan, il protagonista, riflette su quanto la sua vita sembri una replica sempre uguale è un colpo secco che arriva dritto al punto: "E così, anche quest'anno il saggio si è svolto". Qui il romanzo colpisce forte, fotografando con una sola frase una realtà ferma, immobile. Certo, qualche difetto c'è. La struttura della storia a volte è un po' frammentata e i dialoghi, in alcuni punti, tendono a rallentare troppo. Anche l'introspezione dei personaggi, per quanto interessante, rischia ogni tanto di essere un po' troppo pesante e togliere ritmo alla narrazione. Ma nei momenti in cui Mazzini lascia andare tutto e si concentra sulla pura sincerità delle emozioni, il romanzo funziona alla grande. Insomma, Il mondo ci deve delle scuse non è perfetto, ma è un lavoro che merita attenzione. La scrittura ha già una voce interessante e, nonostante qualche incertezza, si sente che Mazzini ha qualcosa da dire. Con un po' più di sicurezza e meno fronzoli, questa scrittrice promette davvero di fare strada. (LUCA MURANO)
Il romanzo narra il rapporto intergenerazionale nel quale genitori e figli si ritrovano a fare i conti con gli stessi problemi derivanti dal sistema sociale in cui vivono. Ambientato a Pigna Marittima, luogo immaginario creato dall’autrice, gli abitanti vivono la propria esistenza seguendo il proprio cuore. C’è chi ha una maggiore consapevolezza e agisce e reagisce rispetto agli eventi e c’è chi li subisce stoicamente. Nel romanzo i protagonisti esprimono, ciascuno a proprio modo, rabbia e delusione, e la storia di Ivan è esemplificativa ma, allo stesso tempo, tutti sono in attesa di un riscatto sociale, perché il mondo ci deve delle scuse per tutto ciò che è stato promesso e che poi è stato disatteso. (PASQUALE BRASCHI)
Sezione B: Romanzi Inediti
Oana Rodica Alexandrescu
Del Generale Frittella
Raramente, negli ultimi mesi, abbiamo riso di gusto leggendo un libro come ci è capitato con il “Generale Frittella” di Oana Rodica Alexandrescu. Siamo nel solco nobilissimo del Miles Gloriosus di Plauto, con riferimenti novecentesco-mitteleuropei che riverberano atmosfere del Buon soldato Sc’veik di Jaroslav Hašek. Qui siamo precisamente in Romania, in un tempo che appare sospeso all’altezza del tabellone di Diplomacy. La regione era una polveriera, e il militare di cui si narra è uomo che si prende molto sul serio; benché semplice sergente, fa il suo esordio reclamando a una sarta camicie gratis in nome del prestigio militare, e viene puntualmente sbertucciato. Come tutti gli uomini privi di ironia, si è fissato su un guaio facendone la propria tragedia personale; certo il cognome Frittella non è il più adatto ad incarnare l’autorità alla quale aspira, ma quando finalmente si trova all’anagrafe non ha la minima idea di quale nome scegliere. Uno scenario poco gettonato come l’Est Europa del primo Novecento accende di suo fantasie paradossali, ma Oana Rodica Alexandrescu meraviglia il lettore allineando con maestria una serie di memorabili scene comiche, che pare già di vedere in scena a teatro o interpretate su pellicola, il tutto per maggior gloria del Generale Frittella! (ENRICO BRIZZI)
Una saga familiare nel senso più puro che attraversa la storia della Romania (mai esplicitamente nominata) nel Novecento, e che si rivela poi essere la ricostruzione della famiglia dell'autrice. Nella prima parte, si impone su tutti la personalità dirompente e suo malgrado buffa del Sergente Maggiore Frittella / Gogoașă, in una singolare ascesa verso i vertici della gerarchia militare. Assumono poi sempre più rilievo le figure femminili, alle quali si deve lo sviluppo della trama, nella loro esistenza divisa fra tradizione ed emancipazione. Lo stile, sebbene voglia a tratti suonare antiquato per aderire al meglio all'ambientazione, resta sempre agile e vivace. Benché la narrazione si evolva in maniera a volte frammentaria a causa degli inevitabili salti temporali, è facile restare incantati da una scrittura ironica che sa descrivere anche eventi tragici e che riesce, nel finale, anche a commuovere. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
"Del generale Frittella" è un romanzo divertente, stimolante, scritto con una lingua vivace, spiritosa e discretamente curata. È diviso in quattro parti e 28 capitoli, ognuno dei quali introdotti da brevi didascalie indicative, ma non troppo. A fronte di una certa lunghezza, 388 pp, la lingua “scivola” e l’azione incalza. Si leggono con velocità le peregrinazioni intime e non del protagonista (ambizioso? sognatore? disgraziato?) calate in una vicenda dal sapore cervantino. Il luogo è la Romania (Bucarest, perlopiù) – si citano le 31 lettere dell’alfabeto rumeno ma non il nome della capitale né il nome del futuro dittatore – e il tempo, almeno in principio, non è ben definito. Probabilmente, si parte dagli anni successivi alla prima guerra mondiale (si cita il recente utilizzo del Troleibuz, il filobus rumeno entrato in uso proprio in quegli anni) per poi coprire un arco temporale più preciso (si fa riferimento alle “nuove diavolerie sotterranee del progresso” – la metropolitana dei primi anni 70 – e alla coppia dittatoriale, – Lui e la signora moglie – e al 1995, anno della morte del protagonista). In relazione a un’idea di progresso in divenire, quasi sempre legato ai nuovi mezzi di locomozione, viene in mente la prosa di Benito Perez Galdòs così icastica e dinamica anche se a secolo XX appena iniziato. Il progresso rumeno assume in questo romanzo una traiettoria abbastanza sbilenca, tra l’entusiasmo urbano e l’arretratezza rurale. Si prenda ad esempio questo passaggio: “Il progresso pian piano si faceva strada anche ai confini cittadini. Eppure, nonostante quel progresso, quando raggiunse anche il capolinea del secondo mezzo, dovette chiedere di salire su di una carrozza trainata da asini per non impolverare e rovinare le calzature nuove.” A emergere, oltre a tram e filobus, sono gli oggetti: una rosa, una camicia senza collo, una candela che perde la luce, un bicchiere di țuică (superalcolico molto popolare), una minestra, il frigorifero Fram ecc. Sono oggetti quotidiani, motori delle vicende al pari di protagonisti e comprimari. Nulla di raffinato, come non lo è l’incipit: “Vi dispiacerebbe ripetere?”, con questa domanda comincia il romanzo. È un attacco potente, “mozartiano”. Senza ambiguità o descrizioni superflue, si entra subito in una scena d’azione. Si pensi all’incipit de "Le nozze di Figaro". Mozart/Da Ponte cominciano con una sequenza numerica "Cinque... dieci... venti ... trenta”, Figaro sta solo misurando lo spazio del letto nuziale. Allo stesso modo, il sergente maggiore Frittella entra in scena senza nessun progetto o desiderio di grande valore. Guardando al suo possibile futuro da generale, ha intenzione di farsi confezionare due camicie di qualità. La sarta prescelta è Maria Tanase, donna assertiva, capace di tener testa a un militare, residente nell’immediata periferia della capitale. In virtù del suo status, il sergente vorrebbe un prezzo di favore. Maria rifiuta sdegnosamente e, con una minima variazione di tono, si prende gioco del suo mancato cliente. “Buona giornata Sergente Maggiore Frittella”. Gli sembrò che avesse usato un tono diverso dal precedente, gli sembrò che avesse proprio calcato sulle parole “Sergente Frittella”. Frittella ha un evidente problema, il proprio nome. Il Sergente è inquieto. Pensa, “Come faranno a rispettarmi se ogni volta ridono di me? Come farò quando sarò Maggiore Frittella? O Colonnello Frittella? Generale Frittella...” L’uomo tanto ambizioso da sperare di diventare generale, chiede alla signorina dell’ufficio preposto, di modificare il nome in Paul Alexandrescu (in realtà la scelta è della signorina). I suoi superiori lo assecondano, ma lo puniranno con ben 6 mesi di reclusione per aver preso una decisione in autonomia. Una volta scontata la pena, Frittella si presenterà dalla sarta per chiederla in sposa, con parole prive di romanticismo: “Eviterò di farvi perdere tempo. Perdonate la franchezza: sono qui per chiedervi se volete sposarmi.” La donna è contesa da un personaggio ambiguo, lo Zingaro, un uomo “ossessionato dal possesso”, che cercherà di conquistarla con la forza. Degno di nota è il seguente paragrafo. Vivido, senza particolari scabrosi: “Volle dire ‘Ascoltami, voglio solo chiederti di sposarmi’. E invece, nel sentire quel corpo caldo serrato al suo, il profumo dei capelli attraverso la seta del batik, nel percepirla inerme, incapace di divincolarsi dalla stretta, mentre, a lui, quel gesto non richiedeva alcuno sforzo, gli parve d’essere impazzito. ‘Adesso m’ascolti’ fu tutto quel che le disse. La sera si riempì di latrati e dolore.” Da qui si dipana una vera e propria una storia rumena ricca di inventiva e di vivacità. E il finale? Il finale non è definitivo. L’indicazione “Volume primo” fa pensare a un seguito. La storia della Romania è così viva che sarebbe bello ascoltare dalla stessa voce il racconto dell’immediata contemporaneità . La letteratura rumena, spesso scritta da chi in Romania non ci vive più o non ci ha mai vissuto, non smette di stupirci. E non è raro ascoltare tra le righe di questo bel romanzo anche la voce di Matei Visniec che, pur raccontando la Romania, mostra una condizione umana generale farsesca e tragica, in un tempo. (LUIGIA BENCIVENGA)
"Del generale Frittella" è un romanzo scritto con grande grazia, lucore. Trae dalle parti più belle dell’esistenza uno stile asciutto e leggero, lasciando delle parti più oscure solo una traccia, come un’ombra proiettata dai ricami di una tenda. Non c’è nessun gusto a indugiare nell’oscurità. La storia riferita riguarda una lunga serie di ragazze, procedente per generazioni, nel loro divenire adulte. Queste, che da una parte diventano individui, crescono, si formano nel senso più ampio e umano e splendido del termine, dall’altra parte, a turno, sono vittime degli uomini. Vengono stuprate, raggirate, convinte da forze storiche troppo forti per singoli individui. Non c’è tuttavia pietà negli occhi di chi scrive, e nemmeno se ne crea in chi legge, per cui si hanno due effetti: il primo è che si delinea una normalità fatta di violenze, il secondo è che queste violenze non sopprimono mai lo splendore degli individui. Questi pregi rendono tutto il romanzo godibile, significativo, e chiaro, e lo legano indissolubilmente, se così si può dire, alla tradizione del romanzo classico. (FAUSTO PAOLO FILOGRANA)
Avventure e vita familiare del sergente maggiore Frittella, esempio di ridicolo spirito di disciplina nella Romania di Ceausescu. Il romanzo all’inizio ricorda letterature di altri secoli e luoghi, Gogol in particolare. Se ne “Il naso” di Gogol l’assessore Kovalev se ne andava in giro per la città in cerca del suo naso, qui il sergente maggiore Frittella è tormentato dal proprio nome e vaga per uffici cercando di cambiarlo, incontrando la resistenza della gerarchia militare. Come ne “Il naso” il tema è il fantasma della propria onorabilità, che nel racconto del grande scrittore russo mostrava il dissolversi di una società incartapecorita. Qui, però, sembra esserci più il riferimento a una gerarchia sociale basata su un apparato di controllo burocratico e ottuso. L’esordio è molto divertente, ma non tutto il seguito lo è altrettanto. Le vicende di Maria e dei suoi pretendenti,ad esempio, sono un po’ prolisse e rischiano alla lunga di annoiare (trattandosi di un inedito, consiglierei di tagliarle). Nella descrizione delle vicende della famiglia Frittella (o Alexandrescu) ci sono alcuni momenti di sottile ironia mentre altri sono meno godibili. In alcune pagine la scrittura è prolissa, soprattutto nei dialoghi familiari che a volte non aggiungono molto alla narrazione. La parte migliore resta il rapporto con le istituzioni, con figure di burocrati che ricordano più Ionesco che Kafka. L’imbarazzo di Frittella per avere generato quattro figlie femmine e nemmeno un maschio, le sue idee sul decoro e l’educazione dei figli, mostrano com’era la società rumena del dopoguerra. Il militare in carriera, sempre succube di qualcuno più alto in grado, può esercitare la propria autorità in casa più che altrove, ma è a malapena sopportato dalle donne che lo circondano, ad eccezione della primogenita Victoria. La libertà all’interno della famiglia è ottenuta dalla figlia Adi con piccoli espedienti di cui Frittella, al lavoro tutto il giorno, è ignaro, mentre la figlia maggiore vuole stare dalla parte delle regole imposte dal padre ma non ne ignora la scarsa autorità. Adi sarà vittima di uno stupro “riparato” con un matrimonio e Frittella crederà di salvare così il proprio onore, l’unica cosa che gli importi veramente. In questa piccola vita che oscilla tra il lavoro nell’esercito e la famiglia a maggioranza femminile di cui nulla capisce, nemmeno la realtà ormonale, Frittella subisce ciò che lo terrorizza più di ogni altra cosa: il cambiamento. Mentre le sue ragazze cambiano e diventano donne, la società stessa muta e le regole su cui Frittella ha basato le proprie piccole sicurezze crollano. Intanto lui fa carriera, quella che aveva sempre sognato, ma senza troppe soddisfazioni. Sergente, luogotenente, capitano, maggiore, nulla cambia dentro di lui e tutto cambia nel mondo. (VINCENZO REZZUTI)
In questo romanzo spicca una facilità - e forse felicità - di narrare storie nel senso più puro del termine. Nelle sue pagine accadono infatti tante cose, passano tanti anni, appaiono e crescono tanti personaggi. E ciò avviene conservando sempre una direzione e una struttura generale. La lingua adoperata si concilia con il ritmo e il tenore delle vicende le quali (ulteriore punto a favore del romanzo) raccontano anche parte della storia e della cultura della Romania, un paese che è vicino all’Italia in molti sensi ma che è forse non così conosciuto. Interessante, infine, - anche se forse da calibrare con più attenzione - l’impianto metanarrativo del testo. (RENATO NICASSIO)
La prosa è curata e consapevole, e non cede alla ricerca del facile effetto. La costruzione in generale rimanda al realismo magico, sia sudamericano che di Cartarescu, limitandosi però sugli aspetti prettamente post moderni di quest’ultimo. Il romanzo dell'autrice si caratterizza per un utilizzo coerente delle tecniche: dai salti temporali, sia in avanti che indietro, al foreshadowing. L'ambizione dell'opera è quella di tracciare una parabola sulla storia del dopoguerra rumeno, e l'obiettivo è in gran parte raggiunto, anche grazie a una coerente mescolanza di storie private e della Storia con la S maiuscola, che fa capolino nei momenti opportuni senza invadere oltre il necessario. L’autrice in definitiva costruisce un mondo credibile e affabile, che attrae e diverte, insegna e accompagna. Il limite dell’opera e fosse solo quello di non individuare una traiettoria di particolare originalità, che però forse si può ravvisare nella particolare mescolanza di ingredienti che la caratterizza. (MICHELE FRISIA)
Le motivazioni della giuria popolare:
Uno spaccato della storia della Romania del secolo scorso attraverso quella di un militare di carriera e della sua famiglia (moglie e quattro figlie). Vicenda capace di interessare e avvincere il lettore, con personaggi, in particolare il protagonista, ottimamente caratterizzati; molto ben descritta l’atmosfera nella quale il Paese viveva sotto il governo comunista di Nicolae Ceasescu. Linguaggio fluido, mai ridondante o eccessivo. (STEFANIA RASCHILLÀ)
Filippo Polenchi
Vesta
Tra le pagine del romanzo si respira costantemente un’aria di fine. Di fine di singole vite, di relazioni, di paesaggi, del mondo intero. L’autore costruisce e racconta una storia che veicola forse più un’atmosfera che una vicenda. E lo fa molto bene. (RENATO NICASSIO)
Teresa, che ha perso sua madre, e suo marito Giorgio, fotografo di case vuote, si trasferiscono temporaneamente in una "casa disfatta, tragica, colma di echi", per vegliare sul padre di lei, Saverio, affetto da una demenza senza nome. Ma un misticismo fantascientifico si fa gradualmente strada tra le loro menti e li contagia. A caratterizzare lo stile di questo romanzo è il costante tentativo di legare gesti quotidiani a immagini concettualmente più elevate per mezzo di accostamenti poetici: di un personaggio che apre gli occhi si dice che “l'iride della visibilità lo schiude al mondo”; un cielo sgombro di nubi è un “granaio divino”; una presunta falsa identità assunta da uno dei protagonisti è definita “involucro ectoplasmatico”. La trama procede tra rievocazioni fumose, riflessioni e richiami apocalittici, in un racconto non lineare, poiché "la verità è altrove, è fuggevole, è perduta da molto tempo". (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
"Vesta" è un testo interessante per molti aspetti. Rappresenta un buon ancoraggio per chi crede che sia ancora possibile sperimentare, abbandonando le strutture imposte dal mercato e dalla logica della ripetizione. La scrittura è davvero matura, la lingua ben curata. È ammirevole la capacità di passare con fluidità dalla seconda alla terza persona, come pure la sapienza con cui Polenchi gioca con i generi. L’autore agisce sul contrasto tra realtà e il delirio, in un ambiente narrativo dove dominano i ritmi dell’attesa e della sospensione. Alcuni passaggi ricordano le attese di Cootzee, di Pamuk e, perché no, di Buzzati. "Vesta" si divide in cinque parti con un salto temporale (nube del padre, nube della parola, nube della notte, nube di Teresa, nume del santo) concluse da Collisione (poetico finale con immagini fotografiche di una collisione astrale) e una Coda dove ritorna l’esergo tratto dai diari Kierkegaard (si riferisce alla rottura di una relazione e, nelle ultime pagine, sarà pronunciato da Teresa in presenza di Giorgio). "Vesta" è un asteroide che provocherà “il finale del conto alla rovescia”, “metterà fine a tutto questo”, “azzerando il corso del tempo”. Accanto a "Vesta" c’è un altro oggetto astrale, la cometa di Vernobach (non esistente), presentata con i toni della profezia e del mistero. La cometa passa ogni cinque anni e porta lutto in famiglia. “Lui sapeva che il passaggio di Vernonbach ha portato malattia cinque anni fa e tornerà a portare qualcosa di terribile anche adesso.” O ancora “Vernonbach ha portato con sé esseri senzienti portatori di voci.” L’incipit è una lunga sequenza raffinata che conduce il lettore in una casa dove lentamente si presentano i componenti di una famiglia del tutto normale. La casa ora è immersa in una tenebra duttile, un composto chimico che si è attaccato all’aria, alle tendine con ricamati i girasoli e casette dei nani, un lavoro di uncinetto di molti anni prima, svolto da sua madre in serate di ombre danzanti, dedicate al lavoro a mano, impastoiate nei fotoni dello schermo acceso della TV. La prosa segue il tempo sospeso di una casa che sa di vecchio, di ricordi, dove tutto è passato. Compresi gli esseri umani: Teresa, ex ricercatrice, il padre Saverio, vedovo di Arianna, suo marito Giorgio, fotografo, la sorella e suo cognato Gilberto, la nipotina Cloe. Nel corso di cena di famiglia, Saverio annuncia un’imminente catastrofe planetaria. “Un’estinzione di massa che durerà per anni, molti anni”. Il ritmo è sempre quello di sospensione, a cui si aggiunge incredulità e amarezza. Qualcuno sospetta che sia il delirio di un vecchio vedovo alle prese con la demenza. È un uomo non perfettamente lucido, “ha smarrito perfino la capacità di leggere, di decifrare i segni scritti ovunque.” Da qui parte una vicenda capace di attraversare i generi, portandoci dal romanzo familiare, alla distopia, dal fantascientifico al romanzo d’amore, senza farsi mancare una puntatina nell’horror e nel mistery con o senza commissario. Il personaggio meglio costruito è quello di Saverio. L’autore non scrive è cieco, ma “accarezza il braille del telecomando”. È un astrofisico, autore di manuali specifici sull’argomento, ma anche divulgatore. Accanto a lui aleggia la moglie di defunta, “l’involucro ectoplasmatico” un vero e proprio fantasma. Intende costruire un rifugio da cui difendersi quando si verificherà la profezia di cui ha messo in allerta i familiari. “È un rifugio che vi permetterà di sopravvivere all’inverno nucleare.” Per tutto il romanzo ci si domanderà se quelle affermazioni sono frutto dei suoi studi o il delirio profetico di un vecchio. Ci si domanderà chi è veramente Teresa (“la sua vita è semplice: fare la spesa una volta la settimana e vivere con Giorgio gl’intervalli liberi del suo lavoro”) e chi è veramente Giorgio, uomo dal passato controverso, forse l’unico attore della vicenda. (LUIGIA BENCIVENGA)
"Vesta" è un romanzo di scrittura, in cui la scrittura è la scrittura, ma è anche la storia. "Vesta" racconta di un vecchio astrofisico, ormai affetto da demenza senile, attorno al quale ruotano due figlie e due generi, diversamente vicini a lui nell’accudirlo nell’ultima fatale fase della sua vita. La figlia a lui più vicina tuttavia, come chi legge i simboli piuttosto che la realtà in sé, vede negli sproloqui del vecchio qualcosa di significativo e significante, ed entra, prima con scetticismo poi con convinzione, nella sfera di influenza delle sue parole. Il vecchio pontifica, profetizza catastrofi legate ai moti dell’universo, catastrofi umane e planetarie, per le quali ha già provveduto, nel tempo, a scavare un bunker nella sua proprietà, allo scopo di salvare le figlie e i loro cari. Questa trama, però, è tutta nell’orizzonte linguistico del vecchio, tutto il libro è l’orizzonte linguistico del vecchio, il suo linguaggio ipererudito, sfrangiato dalla malattia, sempre più corrotto dal tempo al punto da diventare autonomo: non più la descrizione di un universo comune a tutti, ma un universo a se stante. Credere al romanzo significa dunque credere al vecchio. La figlia gli crede, e da quel momento, la sensazione è di essere legati – bendati – ad un pazzo, in un giro per i cunicoli della Storia. Non si può considerare questo romanzo senza considerare dunque la sua scrittura. Le parole, qui, non sembrano un mezzo di espressione, ma il fine. Quando dunque lo stile si abbassa, o perde se stesso, ci si trova senza nulla, senza trama, senza scopo. Tuttavia è proprio questa scrittura a rendere "Vesta" ciò che è. Ci si può perdere, ma ci si perderà in uno stile individuale, autonomo e inconfondibile. (FAUSTO PAOLO FILOGRANA)
Una tragedia incombe su una placida vita borghese: il padre di Teresa, Saverio, dopo la morte della moglie Arianna perde progressivamente le proprie capacità mentali. Teresa va a vivere nella villetta di famiglia, con il marito Giorgio, per aiutarlo. La morte di Arianna rappresenta la fine del mondo delle illusioni e Saverio pur sprofondando nella malattia ne avverte con lucida follia il crollo. È lui, infatti, ad avere costruito la casa-rifugio dove bisogna salvarsi da Vesta, l’asteroide che porrà fine alla vita umana come preannunciato dalla cometa. Il parallelo tra la crisi dell’illusione domestica e il frantumarsi dell’identità intellettuale di Saverio, ex astrofisico, sottolinea la fragilità del mondo borghese di tutta la famiglia. Non solo del padre, ma anche della figlia Teresa e di suo marito Giorgio, che vivono nella delusione di una carriera intellettuale smarritasi in tentativi infruttuosi e nel senso di colpa del proprio benessere dovuto a Saverio. Il progressivo, ma in realtà troppo celere, coinvolgimento di Giorgio nel delirio apocalittico di Saverio (che lo porta ad aderire a un fantomatico gruppo estremista), crea una frattura momentanea tra la visione pragmatica di Teresa e quella profetica dei due uomini. Ma presto anche Teresa condividerà il timore della cometa e di Vesta, rappresentazione mitica della fine del proprio mondo. Solo la sorella Elisa proverà inutilmente a salvarla. Il ritorno di Giorgio la porterà infine a un sacrificio che non potrà impedire la catastrofe. Vernonbach, la cometa, assume il ruolo di causa in una sequenza di tragedie (la morte della madre, la malattia del padre, la latente consapevolezza della fine di tutto) che non possono avere spiegazioni razionali. Come nelle culture antiche, il segno celeste è la causa che rimanda al divino responsabile di ciò che non si potrebbe altrimenti accettare. La presenza di versi nel testo indica forse il tentativo di approcciarsi a un ineffabile tragico, che resta per altro indicibile. Citato indirettamente, “L’ultima onda” di Peter Weir è il film cui il romanzo pare in parte ispirarsi, se non altro come atmosfera. Se nel film la fine del mondo occidentale era dovuta a una colpa rimediabile (la condanna di un aborigeno), qui la colpa è implicita e quindi non rimediabile e la fine di tutto è un evento ineluttabile come la morte individuale (l’autore rende molto bene questa identificazione della vita singola con il mondo nella sua totalità). Scritto con uno stile notevole, il romanzo ha i suoi momenti migliori nella descrizione minuta della vita domestica che perde progressivamente la propria solidità. Meno convincente, secondo me, la “conversione” di Giorgio ai deliri apocalittici di Saverio. (VINCENZO REZZUTI)
Il romanzo ambisce a una prosa ricercata e costruita, ricca di figure sia a livello descrittivo che narrativo. La stratificazione evoca decadenza, e i linguaggi tecnici vengono sfruttati per rinvigorire il corpo della narrazione. Di ispirazione postmoderna, l'opera riesce indubbiamente a costruire un mondo autonomo e a condurvi il lettore. Scienze, arti, titoli di film e romanzi, saggi e tesi, semiotica e semiologia, fotografia e materiali; il mondo costruito dall'autore è ben delineato, colmo di oggetti incastonati e di personaggi che paiono quasi completare tali oggetti, e questo non è un difetto. Il romanzo procede per vera e propria accumulazione, di oggetti innanzitutto, di stanze che li contengono, infine di vocaboli e immagini. Le scelte tecniche sono talvolta originali, sebbene non inedite, come l'uso della seconda persona singolare, o l'impaginazione e l'iconografia del finale, ma sono ben gestite. Il limite forse dell'opera è la capacità non sempre compiuta appieno di trattenere il lettore in quel mondo. (MICHELE FRISIA)
Le motivazioni della giuria popolare:
"Vesta" è un romanzo sorprendente. Inizia come lo spaccato di una famiglia in cui una donna, madre e moglie, muore, e si snoda prima nel dolore per questa morte per poi diventare lo scenario di una follia mascherata dalla quotidianità. Saverio è il padre, astrofisico in pensione, di Teresa. Teresa e suo marito Giorgio, dopo la morte della madre di lei, decidono di andare a vivere con Saverio. Aleggia sulla famiglia una specie di profezia: ogni cinque anni, al passaggio della cometa di Vernonbach, succede qualcosa di terribile: la scoperta della malattia della madre e dopo cinque anni la sua morte. Un giorno Giorgio sparisce, ricompare dopo cinque anni accusato dell’omicidio di una donna. È a questo punto che le carte si scombinano del tutto e il romanzo rivela un colpo di scena al quale il lettore era preparato senza per questo accorgersene. "Vesta" cattura il lettore e lo trascina in un vortice creato anche da una lingua per certi versi visionaria, piena di immagini e di connessioni che ci porta dentro la mente di Teresa e ci fa guardare il mondo attraverso il suo sguardo. Mentendoci. (LUCIA ZAGO)
Placido Di Stefano
Grottesco Adolescenziale Periferico
Questo romanzo racconta la vita di Fedor, "giovane disadattato periferico", tra i ricordi legati alla morte di sua madre, la passione totalizzante per il cinema e un singolare giro di prostituzione platonica in cui si ritrova invischiato quasi per caso. All'inizio, il lettore potrebbe pensare che sia solo il racconto di "una generazione prossima alla disfatta", un dramma di "tossici e visionari", con l’arte e la recitazione a fare da filo conduttore. L’autore smentisce però questa aspettativa e ci guida abilmente facendoci calare nella psiche tormentata del protagonista, portandoci a viaggiare da una finzione all'altra, perché è nella penombra che si muove la vita. Ogni parola, ci insegna il romanzo, può diventare in fondo l'incipit di una storia interessante. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il titolo del romanzo descrive perfettamente sia il contenuto sia la struttura. Il testo si compone di una serie di episodi vissuti da alcuni ragazzini di periferia che cercano di interpretare le loro esistenze grottesche alla luce della loro passione per il cinema. Il risultato è un interessante racconto in cui i personaggi si vivono come attori e in cui, di conseguenza, la loro realtà - che per il lettore è finzionale - è vissuta come una sorta di sceneggiatura. (RENATO NICASSIO)
Un romanzo scritto come un pezzo rap, che sembra voler mostrare il nulla che avvolge un adolescente, Fedor (nome dovuto alla passione della madre recentemente scomparsa per Dostoevskij). Fedor, o Fedo come lo chiamano gli amici, vive nel quartiere di un’anonima periferia, detta non casualmente “Inganni”. Coinvolto da un amico aspirante regista (Moro) in un vago sogno artistico, utilizza le tecniche della recitazione per allontanare una realtà che lo disgusta e ricorre al “teletrasporto”, cioè all’uso estraniante della memoria, ogni volta che si trova in una situazione che non riesce a gestire. È però l’abuso di Fentanyl, usato come droga da quando veniva somministrato alla madre morente, che gli consente di aumentare questo distacco, rendendolo di fatto dipendente dalla sua assunzione. Ad esso si aggiunge l’abuso saltuario di altre sostanze. Seguendo il Moro, che si atteggia a leader del loro piccolo gruppo, Fedor si illude di potere vivere la realtà come un esperimento, di cui registra le sensazioni come fossero fotogrammi della pellicola di un film. Non a caso la storia dell’immaginario cinematografico è un tema centrale nel romanzo. Film classici degli anni settanta e non solo sono citati frequentemente (il Moro organizza delle visioni collettive con tanto di obbligo di stesura di una scheda critica), e servono a Fedo a trovare analogie tra la propria vita e un immaginario di riferimento che pare più concreto della realtà stessa. L’analogia principale è con il protagonista di “Un uomo da marciapiede” (commentando il film Fedo dice che “non c’è alcuna redenzione”). Come nel film Fedo inizia una vita da gigolò accettando di incontrare un direttore di banca e altri ricchi disperati in giochi più o meno platonici, finché un litigio finito male con il direttore di banca non lo fa diventare vittima della paranoia di quest’ultimo e di una punizione esemplare da parte dell’organizzatore degli incontri. Alternati alla narrazione brevi intermezzi descrivono l’attività del gruppo di ragazzi guidati da Moro, consistenti prevalentemente in esercizi di recitazione. Al romanzo, interessante e indubbiamente ben scritto, si potrebbero forse rivolgere due critiche: un eccesso di coerenza dell’autore che fa sì che ciò che avviene sia tutto sommato troppo prevedibile (come fosse una sorta di “storia morale”) e, per contro, la coesistenza difficile tra due aspetti di Fedo: il ragazzo che accetta una sorta di prostituzione mentale per guadagnare dei soldi facili e l’aspirante artista che vive l’adolescenza borghese e un po’ bohemienne da tipico studente liceale classico. I sogni artistici di Fedo sono i sogni di un’elite già culturalmente evoluta (vedi le sue continue citazioni di film che un comune adolescente normalmente non vede) che non ha grandi problemi economici, ma la periferia in cui vive e la sua continua ricerca di denaro sembrano volerlo collocare in un altro ambiente sociale. (VINCENZO REZZUTI)
Il romanzo è un duplice mosaico. Lo è dal punto di vista formale, in quanto unisce pezzi narrativi in prima e terza persona a strutture formali e informali di natura diversa. Ma è un mosaico anche interno, nel quale la disperata vita di periferia milanese si mescola alla profondità intergenerazionale del cinema. E questi due elementi sono proprio quelli che caratterizzano l’opera. Da una parte l’evidente amore per il cinema in tutte le sue sfaccettature, amore dimostrato anche da una notevole conoscenza delle opere rappresentative dei vari decenni di un arco completo della storia della settima arte. Dall’altro la capacità di penetrare appieno nella mentalità smarrita e cruda di un adolescente nell’hinterland, dove la mancanza di possibilità ancora prima che di denaro cancella i punti di riferimento e indirizza le vite verso snodi amari e pregni. L’autore dimostra una notevole conoscenza, comprensione e amore per il capolavori sia del cinema più intellettuale e cripticamente elevato, che di quello più iconicamente nazional-popolare. Il limite maggiore dell'opera è forse la maniera con cui viene trattata la violenza: prima abilmente sottesa, ma infine troppo rassicurante e pop. (MICHELE FRISIA)
Le motivazioni della giuria popolare:
Un romanzo di formazione, vero, crudo, essenziale. Fedor ha sedici anni e porta un nome importante, che sua madre, amante della letteratura, gli ha donato, insieme a stralci di insegnamenti di vita amplificati e resi unici e indimenticabili dalla malattia e dalla conseguente morte. Fedor, pur non dichiarandolo, è rimasto traumatizzato dalla morte di lei e vaga nella sua vita con pochi appigli: la sorella gemella e due amici: il Moro e Leo. Lui, il Moro e Leo formano una confraternita. Si sono promessi di dirsi tutto, ma Fedor non lo fa: non racconta che si fa di Fentanil e che si svende agli strampalati membri del gruppo della Metamorfosi, che lo sfruttano per un periodo conducendolo sempre più in un abisso ricordando, in questo, alcuni romanzi di Ammaniti. Il protagonista perde sempre di più il contatto con la vita vera sentendosi sempre di più come il protagonista di un film, uno di quei film di cui gli parla sempre il Moro. Il linguaggio è credibile, le scene sono come riprese di una telecamera. Emblematica una delle frasi del romanzo: “è questo, alla fine, che bisogna fare nella vita, no?, trovare un modo per alleviare il dolore”. Anche la struttura è interessante: la narrazione in prima persona, infatti, è alternata da una serie di frammenti che descrivono l’attività amatoriale di regista del Moro. (LUCIA ZAGO)
Sezione C: Racconti Lunghi
Mariana Branca
SUUNS
“Faceva freddo, da noi, quasi tutto l’anno. La droga la usavamo per sballarci, per far pompare il cuore, fargli produrre calore. Il Luna Park delle feste di Natale era la scusa buona per uscire, perché le giostre e la droga hanno questo potere, di riscaldare”. Basta la prima pagina di “Suuns”, il romanzo di Mariana Branca, per sentirsi dalle parti del “Postoristoro”, il mitico crocevia di tossici, alcolisti e sbandati che apre “Altri libertini” di Pier Vittorio Tondelli. Ed è, manco a dirlo, una bella sensazione; la prosa regge la prova della credibilità, la vicenda di Totore, cresciuto con un padre violento e finito a drogarsi giovanissimo si dipana con tutti i crismi di una dolorosa credibilità. A diciannove anni ormai cammina “alto e dritto per mera forzatura della sua volontà, mentre dentro era curvo, piegato, pesto, dolorante a ogni passo, scricchiolante come una porta vecchia”. Questo personaggio ha un’anima, dunque sa farsi voler bene al netto di ogni ribalderia, e giunti alla fine del sentiero dispiace separarsene. Resta, però, una ragionevole speranza: che l’autrice approfondisca e amplifichi la sua storia in un vero e proprio romanzo, magari dal titolo più seducente ed eufonico. Lei e Totore lo meriterebbero. (ENRICO BRIZZI)
Trascendenza, simbolismo e sacralità animano la scrittura di SUUNS. I protagonisti sono una coppia di fratelli, Totore e Hölderlin. Totore, il sole, cresciuto tra i pascoli e le botte del padre, muore - metaforicamente - dopo essersi scoperto violento; Hölderlin, lunare, forse illegittimo, cresciuto da una zia che l'ha educato tra libri e musica, si inoltra alla ricerca del fratello in una giostra psichedelica. Uno è nell'altro e unito all'altro, tratteggiando abissi culturali che separano per banalità del destino. La scrittura è raffinata e consapevole: la ripetizione dei termini, le coppie e terne aggettivali, la ricorsività semantica tra le parole, incatenano il lettore e lo accompagnano nella narrazione, che procede per simboli e immagini. Alcune, come quella del padre col braccio sollevato, armato di un ciocco di legno, sembrano istantanee cinematografiche, costruite per calare il lettore nel corpo e nell'occhio di Totore, che sta per essere colpito; altre sono caratterizzate da una delicatezza onirica che si accompagna all'assoluta precisione dei dettagli e della scrittura. La voce dell'autrice riverbera nella narrazione, segnata da numerosi cambi di scena: la disconnessione dal reale è solo apparente, ogni cosa è possibile se la mente la concepisce come tale. Chi siamo quando nessuno guarda ed entriamo in un mondo in cui è consentito giocare ed essere bambini? Questo è il Sole Park, l'occasione incarnare sé stessi. SUUNS, che integra le poesie di Hölderlin, scrittore che diventa personaggio, è un omaggio a lui e alla sua opera in un'interpretazione originalissima e solida. (NICOLE TREVISAN)
SUUNS di Mariana Branca è un racconto di notevole impatto emotivo e profondità psicologica. L'autrice affronta tematiche quali la violenza, la dipendenza e il trauma, intrecciandole in una trama che si sviluppa con ritmo serrato e tensione crescente. La figura di Totore, protagonista tormentato e complesso, è delineata con una sensibilità che ne rende palpabile la sofferenza e la ricerca disperata di un'identità. Il percorso narrativo, che alterna ricordi dolorosi a visioni allucinatorie, si rivela un viaggio introspettivo intenso e coinvolgente. La scelta di ambientare il climax narrativo all'interno di un luna park, il "Sole Park", si rivela una trovata geniale. Questo luogo surreale diventa metafora potente del subconscio del protagonista, dove i traumi riaffiorano in tutta la loro crudezza e vengono affrontati in un confronto catartico. Mariana Branca padroneggia con maestria le risorse linguistiche, creando un'atmosfera densa e suggestiva che coinvolge il lettore a tal punto da fargli quasi provare in prima persona le sensazioni fisiche e psicologiche del protagonista, sia quando è sotto l’effetto delle droghe che mentre lotta contro i propri traumi e le proprie paure. (MARIA SCERRATO)
Il pregio di questa narrazione è che la ricerca della riproduzione della forma parlata o del flusso di coscienza “giovanile” non schiaccia momenti di poesia. Chi scrive ricorda di essere prima di tutto un narratore. Ne viene fuori un racconto-mondo che inanella contesti molto diversi, dalla contemporaneità ai riferimenti storici in un ritmo e un accostamento che hanno la libertà di certi testi di Borges. A volte indugia un po’ troppo nel dettaglio (come per esempio nel caso della vestizione della corazza) ma nel complesso viene fuori un racconto godibile, spiazzante, ricco. La parabola dei personaggi è ampia, complessa e alla fine ci si riesce ad affezionare. (LIVIO MILANESIO)
Al centro di questo racconto ci sono le esperienze psichedeliche di un gruppo di ragazzi a casa di Totore, più vecchio di loro di qualche anno ma ancora succube del ricordo di un padre padrone. Tra il suo salotto chiamato “sballotto” e il luna park Sole una realtà dolorosa condivisa viene esorcizzata attraverso visioni di cavalieri e vendette. Il cane Syd (dal musicista rock Syd Barrett) di Totore, ucciso da un vicino, rivive magicamente in un mondo illusorio dove il bene trionfa attraverso una violenza purificatrice. Le ripetute citazioni musicali, tutte legate alla musica rock, raccontano di un mondo giovanile che si colloca ai margini della società e preferisce rifugiarsi in un mondo virtuale (quello della musica o dei videogiochi o delle droghe) piuttosto di affrontare la realtà. L’autrice scrive con una prosa avvolgente e a tratti impenetrabile, dove il tempo si svolge circolarmente, un po’ alla Faulkner, e realtà e allucinazione si confondono nell’unica realtà della percezione individuale. Lo stato mentale dei protagonisti è reso in modo efficace, così come il circolo vizioso dal quale non riescono ad uscire. Sullo sfondo, confinate nei ricordi infantili, le famiglie con i loro orchi (il padre di Totore) e le loro sante (Ziana). Il titolo è il nome di una rock band canadese, citata nel racconto da Hölderlin, un ragazzo fragile che perderà il senno al culmine di un viaggio psichedelico vissuto nel luna park. Il soprannome del ragazzo è un riferimento esplicito al poeta tedesco di cui condivide il destino e i cui versi (tratti da “Iperione”) chiudono il racconto. (VINCENZO REZZUTI)
Marianna Branca ci presenta un racconto multisensoriale, onirico, psicologico ed enigmatico, la cui chiave di lettura va ricercata nella poetica orfica di Hölderlin. La narrazione procede con un'avvicendarsi di forme che si trasfigurano, pensieri che diventano corpi, passaggi da una realtà a un'altra. Si deve riconoscere all'autrice la capacità di coinvolgere tutti i sensi nella sua scrittura: alle immagini e ai loro colori si accompagna l'accostamento inatteso di odori e sapori; anche l'udito e il tatto fanno la loro parte, grazie ai riferimenti musicali e alle descrizioni che esaltano la consistenza delle cose. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Le motivazioni della giuria popolare:
SUUNS di Mariana Branca è un racconto dal respiro visionario, un flusso di coscienza che mescola ricordi, esperienze sensoriali e riflessioni esistenziali con una prosa densa e suggestiva. La narrazione ruota intorno alla figura enigmatica di Totore e all’universo pulsante che si snoda intorno a lui, fatto di giostre psichedeliche, simboli familiari e derive personali. Le descrizioni sono vivide e intense, come nel passaggio: “Camminavano, più camminavano più il tunnel si faceva stretto, i fumi densi, gli odori totali”, che rende con efficacia l’esperienza di smarrimento e immersione percettiva dei protagonisti. Il racconto esplora con sensibilità la fragilità umana, facendo emergere la complessità del rapporto tra i protagonisti e un ambiente intriso di abbandono e ricerca di redenzione. I personaggi, con le loro peculiarità, emergono con forza: Totore, con il suo passato gravoso e i suoi silenzi, diventa un simbolo di resistenza e sofferenza. Tuttavia, la narrazione, per quanto affascinante, si perde in alcuni punti in una scrittura volutamente densa e sovraccarica di immagini e dettagli, che rischiano di smarrire il lettore. L'ambientazione surreale del Sole Park, con le sue "giostre-Planets" e i fumi profumati che inebriano i sensi, evoca un’atmosfera onirica che ricorda le sperimentazioni narrative di autori come Pynchon o DeLillo. Tuttavia, questa ambizione stilistica avrebbe beneficiato di una maggiore linearità in alcuni passaggi per non sacrificare la scorrevolezza del testo. Nonostante queste imperfezioni, SUUNS colpisce per la sua capacità di fondere realtà e immaginazione in un viaggio emotivo e sensoriale. La storia appare come una riflessione sulla perdita e sulla capacità di rinascere, dove la ricerca dell’assoluto passa anche attraverso il dolore e la disgregazione. Mariana Branca dimostra una voce autoriale originale e coraggiosa, capace di condurre il lettore in distopie inesplorate, ma che potrebbe trovare un equilibrio maggiore tra intensità e ritmo per coinvolgere più profondamente. (LUCA MURANO)
Moïse Leon Rutz
Il nostro Duomo
Un numero quasi imprecisato di adolescenti si trascina tra una stazione e l'altra, fino a Milano, diretti a una festa. Bevono, fumano, si calano qualsiasi cosa su cui riescano a mettere le mani - alcuni con metodo, altri no. Si spaventano, si amano, si perdono e si ritrovano. Tutto avviene in poche ore, in un flusso di parole battenti che scandiscono l'immediatezza e la vitalità di ogni momento vissuto. La narrazione, frenetica e condensata nel solo punto di vista del protagonista, non si sofferma sui personaggi, che sembrano a tratti sfiorare il suo campo visivo, in altri respirare e muoversi con lui. Nel racconto, come nei personaggi, si avverte una forte componente di disillusione: le scene di festa sono vivide e al contempo desolate, come se sotto la superficie della libertà cercata dai ragazzi si nascondesse il vuoto e cercassero costantemente qualcosa che sfugge. Desiderano la trascendenza, ma sembra non possano che rimanere intrappolati in ripetizioni cicliche. Dal punto di vista tecnico, il testo presenta un elevato grado di controllo nella frenesia delle immagini, caratteristica dello stile di Allen Ginsberg e William Burroughs, che l'autore ha studiato e integrato nella sua scrittura. Il linguaggio, sporco e colloquiale, si arricchisce di passaggi quasi poetici, innestati con precisione, che dilatano e ammorbidiscono la narrazione. La scenografia del paragrafo finale, con l'apparizione di una vecchia fabbrica che simboleggia un'era passata - quella del successo economico e della ricchezza - non diversamente dal Duomo, conclude un racconto che lascia un'indiscussa fede nella speranza. (NICOLE TREVISAN)
Il racconto "Il nostro Duomo" di Moise Leon Rutz è un colpo allo stomaco, con la sua rappresentazione cruda ma veritiera di un gruppo di giovani della periferia milanese, durante una notte di eccessi e trasgressioni, alla ricerca, a tratti disperata, di qualcosa che solo all’inizio è lo sballo. La narrazione è resa coinvolgente da un ritmo incalzante, scandito da frasi brevi e incisive, che riflettono efficacemente l'intensità delle esperienze narrate, e mantengono alta la tensione. L’uso di un linguaggio gergale e colloquiale, arricchito da espressioni colorite e intercalari, contribuisce a creare un'atmosfera autentica e a immergere il lettore nel mondo dei protagonisti. Le descrizioni si rivelano particolarmente efficaci grazie a un uso sapiente di metafore e similitudini. L'immagine finale della fabbrica che si trasforma in Duomo, pur nella sua ambiguità interpretativa, risulta particolarmente suggestiva e carica di significato simbolico, aprendo a riflessioni sul tema della ricerca di trascendenza e di un'esperienza che trascende la quotidianità. La musica, le droghe e il contatto con gli altri diventano strumenti per raggiungere uno stato di alterazione della coscienza e di connessione con qualcosa di più grande. (MARIA SCERRATO)
Un gruppo di ragazzi parte in treno da una piccola cittadina lombarda per arrivare a Milano Lambrate dove si tiene un rave in una fabbrica dismessa. Attraverso uno slang giovanile solo apparentemente poco elaborato il racconto si sviluppa seguendo il ritmo incalzante delle loro coscienze sballate. La voglia di farsi e di stravolgersi è uguale oggi come cinquant’anni fa e accomuna i ragazzi che vivono nelle periferie e negli hinterland. Se gli slang giovanili cambiano nel tempo, il linguaggio dello sballo resta quasi immutato ed ha una connotazione esistenziale e politica che solo uno scrittore può fare emergere. Ed è proprio il linguaggio la cosa migliore di questo racconto, che per il resto ripete rappresentazioni di una realtà ben conosciuta che si sono susseguite in questi anni. Ripreso da un parlato comune e poco letterario di cui però viene esaltata la volontà di comunicare a tutti i costi, il linguaggio di chi fugge la realtà attraverso le sostanze è immediato, rappresentando un’esigenza che non si può rimandare. Il rave, il luogo cardine dove lo sballo trova la sua esaltazione sensoriale, appare come mondo non legato a culture, nazionalità o fedi varie, ma punto di raccordo di singole individualità alla deriva, isola nella quale per poche ore e sotto l’effetto di varie sostanze la vita sembra essere più accettabile. (VINCENZO REZZUTI)
"Il nostro duomo" è essenzialmente il racconto dell'esperienza di un gruppo di giovani che prendono parte a un rave milanese. Il linguaggio è colorito, con un registro colloquiale senza filtri. Una scrittura che sa all'occasione superare la mera realtà e cogliere nessi controintuitivi tra oggetti distanti. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Le motivazioni della giuria popolare:
"Il nostro Duomo" di Moïse Leon Rutz è un’immersione totale nella cultura underground, un viaggio lisergico che restituisce con potenza visiva il senso di smarrimento e insieme di appartenenza di una generazione che ha fatto del suono, del movimento e della notte il proprio rituale collettivo. La narrazione pulsa al ritmo di una traccia techno che cresce e deflagra, trascinando il lettore in un universo fatto di stazioni, capannoni abbandonati e "cattedrali" moderne. Frasi come “Ci scaldiamo tipo rito sciamanico, tutti in cerchio” evocano con precisione quasi antropologica i riti tribali delle feste free party. Non si può non pensare a Muro di casse di Vanni Santoni: se il libro dello scrittore fiorentino del 2015 è una mappa emozionale e filosofica del mondo rave, questo racconto ne sembra un’appendice perfetta, incarnandone lo spirito nella Milano post-industriale. Rutz riprende la stessa energi collettiva e il senso di sospensione temporale, lasciando però che la sua prosa sfumi verso il lirismo. L’immagine del capannone che si trasfigura in un Duomo contemporaneo (“Sembra il Duomo con tutte le sue guglie, e mi viene da piangere, non di tristezza, forse di vita”) è emblematica: qui la narrazione trascende la cronaca per diventare quasi un inno sacro alla precarietà e alla bellezz effimera della festa. Ciò detto, proprio come un DJ che indugia troppo su un beat senza farlo evolvere, l’autore rischia di perdere dinamica, accumulando dettagli che appesantiscono la narrazione. Alcuni personaggi, come la Silvietta e il Macedone, sono figure potenti ma restano appena abbozzate, lasciando la sensazione che potessero raccontare molto di più. Il nostro Duomo è un racconto che colpisce per il suo stile autentico e vibrante, capace di rievocare l’eco delle casse e la polvere sollevata dai corpi. Con una gestione più essenziale della narrazione, Moïse Leon Rutz potrebbe rafforzare ulteriormente la sua voce e rendere ogni battito di questo racconto ancora più coinvolgente. (LUCA MURANO)
Zeno Capatti
Equazione a una incognita
Racconto in tre movimenti in cui la sola incognita è il protagonista, Aliosha, prima oggetto dell'apprensione paterna, poi dell'interesse non del tutto professionale del suo terapeuta e infine del sentimento della sua ragazza. Non gli è mai attribuita facoltà di parola e rimane inspiegabile il passaggio da bambino discalculico a prodigio della matematica: la mancanza di comunicazione in famiglia, in società e nelle relazioni esplode in equazioni, dilemmi matematici e problemi da risolvere in pagine e pagine in cui ad avanzare è solo la meccanica della mente. Quella del desiderio viene imbrigliata e taciuta, così come quella affettiva. Il testo restituisce un'impressione di solitudine sottesa a ogni movimento del racconto e della vita del protagonista, resa con linguaggio chiaro e introspettivo e frammentata dagli sguardi degli altri - il padre, il terapeuta, la ragazza - ognuno puntato su un aspetto diverso di Aliosha. Impossibile conoscere la verità e la complessità del protagonista: questa conclusione, drammatica nella sua brutalità, sembra confermata nelle ultime battute del testo, quando il protagonista, dopo anni, rivede la ex fidanzata e tutto il tempo trascorso, il matrimonio e i figli, la stanchezza del lavoro e le delusioni di una vita, passano attraverso immagini sfuggenti e impossibili da ricomporre. L'essere umano è un'incognita per sé stesso e per gli altri: il racconto dimostra quasi matematicamente questo assioma, con uno stile consapevole e assoluta coerenza interna. (NICOLE TREVISAN)
Nel racconto "Equazione a una incognita" di Zeno Capatti la matematica è la metafora dell’incomunicabilità che separa le persone e le avvicina solo momentaneamente e provvisoriamente. Un giovane padre ingegnere è frustrato perché non riesce a comprendere il figlio Aloisha, fragile psicologicamente e bullizzato a scuola. Continua a dargli, come fossero un tormento per entrambi, delle lezioni di matematica, finchè quest’ultimo in un processo di trasformazione repentino e inesplicabile diventa un autentico genio. A questo punto è il padre a sentirsi completamente spiazzato dal cambiamento. Nella seconda parte del racconto, il giovane Aloisha è descritto dal suo psicanalista. Ignoriamo il motivo perché partecipi a delle sedute terapeutiche, ma torna la matematica, come epifania, rivelazione magica nella sua vita. Ed infine nella terza parte è una donna a interrogarsi sul perché non è riuscita ad entrare nel mondo interiore di Aloisha con cui è stata fidanzata, che non è riuscita a comprendere perchè le sfuggiva la matematica. Capatti scava a fondo nella psiche dei personaggio affrontando tematiche complesse e attuali, L'intreccio di queste tematiche rende la narrazione ricca di spunti di riflessione. (MARIA SCERRATO)
In "Equazione a una incognita" troviamo tre prospettive che osservano la stessa anima, ognuna nel proprio contesto e in un certo tempo. Le incognite, in realtà, sono tre, perché ciascuna delle voci narranti ci offre un dettaglio criptico che è una sfida decifrare. Il racconto offre una riflessione sulla matematica e le insicurezze che suscita in molti, ma si presta a essere letto anche come un'analisi della genialità. Ben riuscita è la variazione di stile e linguaggio che accompagna i mutamenti di prospettiva, rendendo la voce dell'autore meno riconoscibile dietro lo sguardo dei personaggi. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Il racconto è diviso in tre parti. Nella prima Aliosha è un bambino incapace di capire la matematica e vittima di bullismo. Quando il padre ingegnere cerca di spiegargli le equazioni per l’ennesima volta, Aliosha prima gli chiede se può abbracciarlo, e poi, superata la sorpresa del padre, inizia a dare soluzioni istintive a equazioni anche molto complesse. Nella seconda parte Aliosha si reca da uno psicologo cui si è rivolto per curare l’incapacità di gestire la propria genialità. Nella terza parte una studentessa di ingegneria ha una relazione con lui, resa difficile dal senso di inferiorità che prova vedendo che Aliosha riesce istintivamente a comprendere ciò che per lei è troppo difficile. Sarà però proprio lei a fare carriera come ingegnere, mentre lui, incontrato dopo molti anni, continuerà a non essere in grado di trasformare la sua genialità in risultati concreti. Un racconto ben scritto, con uno stile che mantiene sempre un’algida perfezione ingegneristica che ben fa comprendere la tristezza della richiesta d’affetto di Aliosha bambino. La solitudine dei numeri primi, per dirla con Paolo Giordano, è ciò che impedisce alla vita e ai sentimenti di Aliosha di ambire a una normalità che gli è negata. La genialità, per Aliosha, non è una fortuna, ma una malattia impossibile da curare. Sullo sfondo l’aridità della tecnica, rappresentata dal padre che esulta alla scoperta della genialità del figlio, ma che è incapace di rispondere a una richiesta di amore. (VINCENZO REZZUTI)
Le motivazioni della giuria popolare:
"Equazione a una incognita" di Zeno Capatti è un racconto che intreccia con eleganza il rigore matematico e la fragilità umana, raccontando la relazione tra un padre ingegnere e un figlio in difficoltà con un’intensità sorprendente. La narrazione è costruita come un’equazione da risolvere: ogni scena aggiunge un’incognita emotiva, ogni interazione è un tentativo di trovare una soluzione. Le descrizioni sono precise, quasi chirurgiche, ma non per questo meno poetiche: “Le iridi nere nere, gli occhi lucidi, e con una certa determinazione mi aveva chiesto: ‘Papà, mi daresti un abbraccio?’” è un momento che incarna la fusione di logica e sentimento, rendendo palpabile il bisogno di vicinanza e comprensione. Il racconto trova il suo punto di forza nel rendere la matematica un linguaggio delle emozioni, capace di descrivere con la stessa intensità i legami affettivi e le distanze incolmabili. In questo senso, l’opera richiama i romanzi The Circle e The Every di Dave Eggers, in cui l’ossessione per la misurazione e il controllo di ogni aspetto della vita finisce per amplificare le fragilità umane, piuttosto che sanarle. Come nei romanzi di Eggers, anche qui la tensione nasce dall’impossibilità di ridurre le relazioni umane a un sistema ordinato di dati e risultati. La matematica, che dovrebbe rappresentare chiarezza e prevedibilità, diventa un labirinto emotivo in cui il protagonista si perde nel tentativo di comprendere e "aggiustare" ciò che non può essere ridotto a una formula. Qui, l’attenzione al dettaglio rischia di rallentare la narrazione in alcuni punti, facendo perdere a certe scene parte della loro immediatezza. Il personaggio del figlio, Aliosha, è dipinto con una complessità affascinante: dalla sua fragilità iniziale alla sorprendente lucidità con cui padroneggia le formule, emerge un ritratto ricco di sfumature. In alcuni momenti, però, la voce interiore del padre sovrasta quella del ragazzo, lasciando in sospeso alcuni elementi della sua evoluzione emotiva. In definitiva, Equazione a una incognita è un racconto potente e coinvolgente, capace di mescolare introspezione e tensione narrativa con grande efficacia. Capatti dimostra di possedere una voce narrativa raffinata e ambiziosa, in grado di raccontare il dramma umano attraverso l’eleganza della logica e la fragilità del cuore. (LUCA MURANO)
Sezione D: Racconti Brevi
Deborah Guarnieri
Sanguinamento
La storia di un ciclo mestruale s’intreccia a quella di un viaggio in Marocco, il respiro ritmico della vita con una circostanza per guardarsi da fuori e riconoscersi ancora una volta. “Quando raggiungiamo l’accampamento nel deserto, il mio corpo pulsa per il sole. Ho slegato il foulard verde dalla testa e ai cammelli sono state legate le zampe. La sabbia arancione è rimasta incollata ai miei piedi nudi nei sandali e la mia pelle risplende, la sento, lego i capelli, lascio il collo e le spalle scoperti, indosso orecchini dorati. Gli estrogeni stanno aumentando, e con loro la libido. A ridosso dell’ovulazione, il mio odore cambierà e gli uomini lo sentiranno”. Sanguinamento di Deborah Guarnieri si pone nel solco di Erica Jong e dei “Monologhi della vagina”, e al corpo femminile dà voce attraverso una prosa esatta, capace di dar conto di ondulazioni, scoramenti e desideri di quei giorni in cui le donne in età fertile scontano “la nostra punizione per non esserci fatte fecondare neanche questa volta.” (ENRICO BRIZZI)
"Sanguinamento" è un racconto che cattura immediatamente il lettore con la sua idea creativa, profondamente originale: legare il viaggio della protagonista ai 28 giorni del ciclo mestruale. Questo filo conduttore, che intreccia la dimensione biologica con quella psicologica e narrativa, conferisce al testo un’identità unica e coerenza tematica. Il racconto sorprende non solo per la sua struttura e per la tematica originale, ma anche per il suo stile, che si muove con fluidità tra registri diversi e si arricchisce di inserti letterari e riferimenti culturali. La scrittura di Guarnieri si distingue per una prosa schietta, diretta e mai banale, che alterna immagini contemporanee di impatto a momenti più introspettivi e lirici. La narrazione, apparentemente frammentata, scorre in un flusso di coscienza che restituisce con autenticità e immediatezza le pulsioni, i conflitti e i desideri della protagonista. Le descrizioni delle emozioni e dei corpi sono crude ma poetiche, senza mai cadere nella retorica, e affrontano tematiche femminili con una sincerità che colpisce per coraggio e profondità. La forza del racconto risiede anche nella capacità di Guarnieri di combinare l’universale e il personale: il viaggio fisico, attraverso paesaggi esotici e intensi, diventa metafora di un viaggio interiore alla scoperta di sé, in cui la protagonista esplora il confine tra il piacere e la lotta contro le convenzioni e le aspettative sociali. Infine, la struttura narrativa, volutamente non lineare, riflette il disordine emotivo e l’instabilità del mondo interiore della protagonista, rendendo l’esperienza di lettura quasi ipnotica. "Sanguinamento" è un racconto che invita a riflettere su temi complessi come l'identità, la femminilità e il rapporto con il corpo, restando allo stesso tempo una lettura godibile e coinvolgente. È un racconto che ho amato e rileggerei più volte. (ELISA BELLERO)
L'opera si distingue per l'originalità con cui affronta il tema dell'identità femminile, intrecciandolo con la riflessione sull'arte e la creatività. Il ciclo mestruale diviene metafora di un percorso di autoscoperta, in cui la protagonista si confronta con le proprie contraddizioni e fragilità, nonché con le aspettative sociali legate al corpo e alla maternità. La Guarnieri utilizza un linguaggio ricercato e suggestivo, arricchito da citazioni letterarie e riferimenti artistici che contribuiscono a contestualizzare la vicenda in un orizzonte culturale ampio. L'ambiguità del finale apre a diverse interpretazioni, stimolando la riflessione del lettore. L'autrice dimostra una notevole capacità di introspezione e di analisi critica della condizione femminile. Opera di notevole pregio per l'originalità del tema trattato, la raffinatezza stilistica e la profondità di analisi. (MARIA SCERRATO)
"Sanguinamento" di Deborah Guarnieri è un doppio viaggio: uno nello spazio, da Oriente a Occidente, fra lingue e culture e distanti; e uno interiore, ma di un'interiorità concreta, che unisce la biologia alla psiche. È insomma un viaggio ormonale della protagonista, alle prese con gli sbalzi e i dolori del ciclo mestruale. Il racconto, con la sua narrazione vivace e una spontanea rappresentazione dei pensieri, evidenzia la complessità dell'essere donna nell'affrontare la sfida quotidiana a saper cogliere i messaggi del proprio corpo. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
I contraddittori pensieri verso la gravidanza di una giovane donna, combattuta tra un’idea un po’ bohemien di libertà e un desiderio sessuale di cui teme l’inganno procreativo. In vacanza in Marocco con il suo compagno, si sposta con una nave da un porto all’altro insieme ad altre coppie di turisti che provengono da tutto il mondo. Gli sguardi curiosi e indagatori degli abitanti locali cercano di capire un mondo, quello occidentale, che appare loro forse un po’ irreale. Nel frattempo il corpo della protagonista scandisce il ciclo dell’ovulazione e le variazioni ormonali condizionano i suoi sentimenti. Il sanguinamento mestruale è immaginato come la punizione per non essersi fatta fecondare. Le citazioni di Erica Jong sottolineano il difficile rapporto della protagonista con il proprio corpo. (VINCENZO REZZUTI)
Il racconto è estremamente originale, scritto in maniera colta e attenta, attraverso una forma sempre elegante e controllata. Le citazioni che aprono e chiudono il racconto sono interessanti e pertinenti. Mi piace il titolo che, oltre a connotare il ciclo mestruale, con tutta evidenza sottolinea la difficoltà tautologica di ciascuna donna di affrancarsi dalla “propria condizione di donna”, essendo “il conflitto (tra l’io della specie e l’io del sé che tutte le donne riuniscono al proprio interno) nel sangue”. (ANGELA FLORI)
Il racconto di un viaggio in Marocco scandito dalle fasi del ciclo mestruale: assenza o presenza del sangue, temute o desiderate, per sempre legate alle aspirazioni personali e alle catene imposte della società. Momenti sospesi nel deserto o sotto le luci di Tangeri, in cui abbandonarsi liberamente alla voluttà, si alternano a incursioni del tempo che scorre, sotto forma di applicazioni e articoli online che forniscono spiegazioni scientifiche a emozioni e istinti. Sul filo di Paura di volare di Erica Jong, un racconto sulle donne e sull’essere donna, sull’essere o non essere madre, sul potere del desiderio e sui desideri. Una riflessione su un destino a cui sembra impossibile sfuggire eppure al quale ciclicamente ci si ribella, portata avanti in uno stile diretto e un in tono confidenziale, tanto che si ha l’impressione di sentir parlare una vecchia amica, oppure una sconosciuta incontrata per caso ma che ci sembra di conoscere da sempre. (LUCREZIA PEI)
La vita di una giovane donna è predestinata dagli ormoni sessuali – la vita di ogni donna è predestinata dagli ormoni sessuali. Fatima – nome di fantasia datole da un uomo; il nome della figlie femmine primogenite, novella Eva – è in balia del mare rosso delle mestruazioni: sotto il bel tempo degli estrogeni, che la fanno eroina sensuale della propria esistenza, Capitana Libido; e i temporali del progesterone, che porta un gran tuonare e piogge di lacrime. Le resta estraneo il Porto della maternità, luogo esotico nonostante il suo corpo ciclicamente pronto e desideroso. Tra seni che si ingrossano, sfregamenti contro le gobbe di un cammello, accoppiamenti nel deserto e confronti di genitali femminili, come una Isadora Zelda White Stollerman Wing, la protagonista di questo originale racconto è in viaggio verso la meta più ambita: la vera sé stessa. Il cammino è lungo, per Fatima-Isadora-Deborah Guarnieri come per tutte noi. E certamente non finisce col suo ritorno dal Marocco. Un modo intelligente di raccontare la sessualità femminile, le gabbie sociali e la nostra posizione in un mondo patriarcale. Una scrittura pulita, su misura alla narrazione, con qualche lampo icastico, che si assapora meglio a una seconda lettura Da consigliare a chiunque abbia mai chiesto, o pensato, anche solo una volta: Ehi, ma hai le tue cose? (ORNELLA SONCINI)
Le motivazioni della giuria popolare:
La storia di una giovane donna che, come la protagonista del libro scandalo Paura di volare di Erica Jong uscito nel 1973 cui fa riferimento, tenta di essere semplicemente se stessa in un mondo ancora pieno di tabù. Conoscersi e scoprirsi non è facile e l’autrice, in quanto donna, ne conosce bene il pathos. Il testo si snoda attraverso una scrittura scorrevole che mette in primo piano la sessualità e che copre un bisogno, quello di affermarsi e scindersi dall’essere femmina e madre, fino a capire che non c’è la possibilità di farlo. Possiede un argomento forte questa storia rosa (o rossa?), ed è un bene che se ne parli e se ne scriva sempre. La strada dell’accettazione passa anche da qui. (FEDERICA CAPODURI)
Viviana Veneruso
Capezzali
"Capezzali" è un racconto intenso, che esplora il tema della perdita con verità descrittiva e linguistica e una profondità emotiva che catturano il lettore fin dalle prime righe. La forza del racconto risiede nella sua capacità di catturare il realismo dei momenti legati alla morte, attraverso dettagli concreti, che restituiscono una visione cruda e disincantata della realtà. Le descrizioni dei piccoli gesti, degli oggetti e degli spazi diventano veicolo per riflettere sull'assenza, sul ricordo e sul legame indissolubile tra il passato e il presente. L’autrice riesce a evocare immagini vivide e suggestive che non solo raccontano, ma fanno vivere la nostalgia in modo tangibile. "Capezzali" si distingue per il suo approccio narrativo diretto e pragmatico, che trasmette con forza il peso delle emozioni represse e l’impatto tangibile della perdita. Pur privo di lirismo, il racconto trova la sua potenza proprio nella sua onestà e nella capacità di ritrarre momenti che molti lettori possono riconoscere come propri. Uno degli aspetti più riusciti del racconto è la sua capacità di universalizzare l’esperienza personale. Pur partendo da un vissuto profondamente intimo, Veneruso riesce a parlare di temi che toccano tutti: la fragilità della vita, la memoria e il bisogno di trovare un senso nell’assenza. (ELISA BELLERO)
L'autrice affronta con delicatezza e profondità il tema universale del lutto, declinandolo attraverso due esperienze distinte della protagonista. L'infanzia, segnata dalla perdita della nonna in un contesto familiare tradizionale, fa da contraltare all'età adulta, in cui la morte prematura del compagno irrompe con una violenza inaudita, amplificando il dolore e il senso di vuoto. La Veneruso utilizza un linguaggio evocativo e ricco di immagini potenti, che si imprimono nella mente del lettore, lasciando una traccia emotiva duratura. La narrazione si distingue per l'analisi introspettiva dei personaggi e per la capacità di rendere palpabile la complessità delle emozioni umane di fronte alla perdita. Si apprezza la capacità di trattare un tema delicato con sensibilità e senza cadere nel patetismo. Opera meritevole di attenzione per la profondità tematica e la qualità della scrittura. (MARIA SCERRATO)
"Capezzali" di Viviana Veneruso è un testo potente, intenso, capace di far parlare gli oggetti, di creare simbolismi e di farli dissolvere in poche pagine. Attraverso il racconto di due perdite, due lutti, due confronti opposti con la realtà della perdita, l'autrice ci permette di esplorare il tema della morte, generando da qui una riflessione sull'"ordine naturale delle cose" e sulle sue strazianti deviazioni. Un racconto triste, certo, ma di un tipo di tristezza di cui a volte, in fondo, tutti abbiamo bisogno. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
A sette anni la protagonista di questo racconto partecipa alla veglia per la morte della nonna. Un rito di commiato che appartiene a un mondo antico, avvenendo in casa anziché attorno a un letto d’ospedale (dove ora sempre più spesso non c’è in realtà alcun commiato). La partecipazione della bambina, che adesso sarebbe impossibile, anticipa la sua presa di coscienza della morte, che avviene prevalentemente in modo sensoriale tramite lamenti e odori. A trentuno anni la stessa protagonista si trova invece al capezzale del suo fidanzato. La situazione è diversa, una malattia sta uccidendo una persona giovane rompendo il corso naturale delle cose. Mentre la nonna invocava Dio in un rituale che si ripeteva uguale da secoli, il fidanzato muore nella rassegnazione laica di una cura impossibile e la sua morte avviene in silenzio, con pudore. Un racconto che in poche pagine riesce a descrivere un cambiamento culturale enorme avvenuto nelle nostre vite. (VINCENZO REZZUTI)
Splendido, coinvolgente dall'inizio alla fine. Il racconto rende felicemente i temi difficili della malattia, della morte, della sopravvivenza alla scomparsa di persone care, dimostrando dell'autrice la buona padronanza linguistica, la capacità di catturare l'attenzione del lettore, l'utilizzo di uno stile elegante, a tratti poetico. (ANGELA FLORI)
Il congedo dalla vita: è il filo conduttore dei due episodi del racconto, che segnano profondamente l’esistenza della sua protagonista. Ancora bambina, è testimone degli ultimi momenti di sua nonna, del congiungersi di una creatura sfiancata ma ancora vitale alla Morte, presenza aleggiante nella casa e nelle cose, tra scheletri di ghirlande, steli ghigliottinati e bouquet di fiori secchi ormai quasi polvere. Rito «sacrale ma non troppo», inevitabile avanzare del futuro che divora il passato. Nulla sarà come prima. Poi, trascorsi più di vent’anni, un nuovo addio più straziante e silenzioso, di un bianco impersonale, come le carni del fidanzato consumate dalla malattia fino a farsi cenere. Il futuro portato via da un presente che, senza speranza, appare eterno e senza senso. Un racconto animato dalle immagini, in cui disparati oggetti quotidiani dialogano tra “il prima” e “il dopo”, acquisendo vigore da associazioni inusuali, tra una sacralità fisica, che coinvolge tutti i sensi, e una prosaicità crudele e transitoria. Uno sguardo ai paradossi inconciliabili della perdita e del cambiamento, a viso aperto, come quello di un bambino. (LUCREZIA PEI)
La morte aleggia su tutto il racconto come ali di uccello. Un tema non così presente nella nostra narrativa e perlopiù trattato trasversalmente, nell’indagine delle sue cause o delle conseguenze luttuose. Va, dunque, già riconosciuto a Viviana Veneruso il merito di aver lasciato, nello spazio esiguo di un racconto breve, il tempo alla pelle di prosciugarsi, ai muscoli di ritirarsi e alla carne di iniziare a decomporsi. Il testo e la vita della protagonista si articolano in due eventi cardine: la morte di un’anziana signora, l’iguana-matriarca della famiglia a cui la giovane narratrice appartiene; e quella del suo compagno e convivente, F., quando oramai è divenuta una donna. Due perdite che segnano, rispettivamente, la sua immaginazione bambina, verde e dalle associazioni imprevedibili particolarmente apprezzate («le nocche erano bianche come meringhe»; la famiglia riunita al capezzale della vecchia simili a statuine di un presepio; «assaggiare il sangue di un moribondo e scoprirlo marmellata»), e la sua bianchiccia e insalubre quotidianità adulta, dove le beghe e le banalità non sono arrestate nemmeno dal profondo dolore (la burocrazia che governa anche su malattia e morte; la casa, sembra suggerire, prima o poi da lasciare; le suppellettili, la cui fine è più incerta di quella dell’anima dopo il decesso del corpo) – e si percepisce anche una coerente variazione di registro. Un racconto che ha la sua forza principale nelle immagini che la scrittura dell’autrice è capace di evocare – e che, solo di rado, diventa sdrucciolevole – e così nelle atmosfere, specialmente nella prima parte, quasi morbose e assai coinvolgenti. (ORNELLA SONCINI)
Le motivazioni della giuria popolare:
La speranza è l’ultima a morire, si dice. Eppure in questo breve ma denso racconto, scritto con sapienza, l’autrice ci descrive una protagonista che non ha più fede né tantomeno speranza, alle prese con una malattia gravissima e terminale del suo giovane compagno di vita. Confrontando due quasi-lutti questa storia, ben bilanciata dal lessico – dove termini dialettali infondono giusto corpo e sostanza ad alcuni passaggi narrativi –, analizza la complessità del vivere con e solo attraverso segnali di morte, rifuggendo all’effimero attaccamento alle cose. (FEDERICA CAPODURI)
Deborah Foss
L’ultimo debito
"L’ultimo debito" è un racconto che, con uno stile asciutto e diretto, trascina il lettore in una realtà dura e disillusa, offrendo uno spaccato vivido di una comunità e delle sue dinamiche. Deborah Foss riesce a tratteggiare i suoi personaggi con pochi, incisivi dettagli, costruendo un microcosmo narrativo che riflette tensioni sociali e personali di grande attualità. Il punto di forza del racconto è la sua capacità di far emergere temi universali come la dipendenza, il sacrificio e la perdita. La figura di Giada, in particolare, rappresenta il cuore emotivo della narrazione: il suo percorso, osservato attraverso gli occhi del narratore, è un racconto parallelo di crescita e disillusione, che arricchisce la trama di sfumature e significati. L’atmosfera creata è densa e claustrofobica, grazie a descrizioni che riescono a rendere tangibile il senso di degrado e stasi del bar dove si svolge gran parte della storia. L’ultimo debito si distingue anche per la sua capacità di lasciare spazio al lettore, evitando facili giudizi e offrendo invece una visione complessa e ambigua dei personaggi e delle loro scelte. È un racconto che colpisce per la sua crudezza e la sua onestà, lasciando dietro di sé un senso di inquietudine e riflessione sulla natura delle relazioni umane. (ELISA BELLERO)
Il racconto si concentra sul tema della colpa e del rimorso, esplorando le dinamiche psicologiche di un protagonista, tormentato dal rimpianto del passato. L'autrice costruisce una narrazione intensa e malinconica, in cui il non detto assume un ruolo centrale, amplificando la tensione emotiva. La Foss dimostra una buona padronanza della tecnica narrativa, dosando sapientemente le informazioni e creando un'atmosfera di sospensione che cattura il lettore. L'incontro finale dell’io narrante con Giada rappresenta il culmine drammatico della vicenda, svelando il peso ineluttabile delle mancanze passate. Racconto ben costruito, caratterizzato da una scrittura efficace e da una profonda analisi psicologica dei personaggi. (MARIA SCERRATO)
"L’ultimo debito" è un racconto-scommessa, e lo è per com’è scritto, prima ancora che per il tema di cui tratta. La lingua è semplice, la voce piana, non estranea all’utilizzo di espressioni trite (“sentii il cuore battere in gola”, “la vidi sbocciare davanti ai miei occhi”, “gli altri misero su famiglia”) e immagini cliché (il mazzo di fiori finti, le gocce di sudore che cadono sul tavolo da gioco, il sonno della studentessa sui gradini, l’uomo pelato che viene da lontano). Eppure non si tratta di scelte innocenti. Al contrario, sembrerebbe che la sobrietà della lingua, quasi la sua banalità, servano ad almeno due scopi: il primo è quello di ricreare fedelmente un sentimento (la provincia, per tutti coloro che vengono da lì, è questa stessa banalità, questo tempo senza picchi); il secondo, per me più interessante, ha a che vedere con la costruzione di un momento, che in questo caso coincide con il finale. È proprio nelle sue ultimissime righe, infatti, che il racconto guadagna forza rompendo, attraverso le battute di dialogo, proprio quella lingua, quell’immaginario e suoi cliché: la fanciulla angelicata finalmente ha una voce, che è roca, scura e ha un paio di cose da dire. E anche se si nota ancora un certo cedimento al melodramma (penso al vomito finale, che però è anche il punto d’arrivo logico di una storia che, tra puzza di fumo e di birra, shampoo alla vaniglia, ammoniaca e giuggiole alla menta, non manca mai di stuzzicare l’olfatto), il finale mantiene la sua promessa, e chiude i conti per davvero. In un panorama letterario in cui il linguaggio tende all’ipersaturazione e l’immaginario all’apocalittico o, in Italia, all’interminabile folclore della provincia, fa piacere leggere un’autrice che, senza gridare, ha la pazienza di costruire un momento e la fiducia di riscuotere, alla fine della mano, il premio che merita. (ALESSANDRA SERENA CAPPELLETTI)
Nel suo racconto "L'ultimo debito", Deborah Foss attira il lettore in un microcosmo – un bar di provincia – fatto di fumo, voci di giocatori di carte e odore di birra. Dentro quest'atmosfera ben rappresentata assistiamo al declino di un uomo ossessionato dal gioco, e in particolare agli effetti che tale dipendenza ha sulla vita della figlia Giada. Il narratore, testimone della crescita della ragazza e del dramma da lei subito, è uno spettatore curioso ed emotivamente coinvolto, ma in fondo sempre passivo. Tramite la sua voce e i suoi occhi da osservatore, il racconto veicola il suo vero messaggio, spingendo il lettore a interrogarsi sui temi della colpa, dell'apatia, e del ruolo che ciascuno ricopre nelle vite degli altri. (LUIGI ESPOSITO GIARDINO)
Un uomo frequenta il bar del paese dove gioca a carte Gerardo, proprietario di un negozio che fa gestire alla moglie. La figlia Giada cerca tutti i giorni di farlo tornare in negozio, o a casa, senza riuscirci. Ossessionato dal gioco, Gerardo segue la sorte di tutti i ludopatici: a un periodo iniziale di vittorie che lo esaltano segue l’irresistibile china delle sconfitte e del debito. Dopo avere venduto il negozio e la casa per pagare le perdite al gioco, l’ultimo debito sarà pagato con il sacrificio della figlia. Incontrata dopo tanti anni dal narratore, la figlia lo accuserà di avere assistito alla rovina del padre, e alla propria, senza avere il coraggio di intervenire. Un racconto dallo stile secco, che ricorda un po’ la letteratura del novecento americano, tra Hemingway e Carver. Il vero protagonista della storia è proprio il narratore, che perde l’occasione di essere limitandosi ad assistere alla vita di altri. (VINCENZO REZZUTI)
Interessante racconto. Ben scritto, ottimo l'incipit e lo svolgimento fino alla spannung. Ottima anche la scelta di non raccontare esplicitamente lo svilimento del corpo di Giada, ceduta dal padre in cambio di un debito da gioco nell’indifferenza colpevole di tutti. Ho trovato, tuttavia, affrettato il cambio di contesto della seconda parte del racconto, che risulta generalmente meno coinvolgente. Forse perché ci si aspetterebbe un gesto di maggiore consapevolezza da parte del personaggio narratore, che invece resta imperdonabilmente passivo per la seconda volta. (ANGELA FLORI)
Le motivazioni della giuria popolare:
Una storia tragica, un padre che vende la figlia per debiti di gioco. Un finale amaro conclude un tracciato ben seminato dall’autrice, grazie a un lessico preciso e curato che fa scorrere fluida la lettura. Un racconto/atto di denuncia verso una società immobile come il co-protagonista, un pezzo composto e strutturato in maniera ben ordinata, dove si è prestata attenzione a non creare distrazioni dal nodo centrale. (FEDERICA CAPODURI)
Sezione E: Poesia
Valeria Cagnazzo
Il pesce lampada
I versi liberi di Valeria Cagnazzo ci trasportano in un passato luminoso, nel quale i pescatori dell’Italia meridionale s’imbarcavano per dar la caccia alle balene; a far da specchio al mare che colma l’orizzonte, anche gli schermi dei cinema d’essai baluginano di onde, quelle che fanno da sfondo alla relazione fra Giannini e Melato nel capolavoro di Lina Wertmüller, Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Davvero a metà anni ’70 si pescava ancora la balena nel Mediterraneo? L’incredulità si stempera nella precisione dei dettagli: lo si faceva “con una compagnia di tonno in scatola della baia di Torre Lapillo”, e chi dubita è servito. È brava, Valeria Cagnazzo, a scortare il lettore in un universo di realismo magico schiettamente italiano, anzi italiano meridionale nel suo senso più nobile, quello della capacità di dialogo con una tradizione che, in questo caso, ci pare affondi nel ricco corpus nelle novelle popolari. Il padre pescatore, nel suo viaggio fuori dal tempo, diventa amico di un pesce e approda a Otranto nel giorno in cui i Turchi prendono la città e ne martirizzano gli abitanti che rifiutano la conversione. Si nasconde laggiù, in un fatto di sangue vecchio di cinque secoli e mezzo, il seme che fiorisce nelle ultime stanze della poesia di Valeria Cagnazzo: “Con quale furore le anime gentili si dileguano senza perdersi nel nulla”. (ENRICO BRIZZI)
L’Autrice ha un’ottima inventiva verbale. (GIUSEPPE FEOLA)
Ne Il pesce lampada l’autrice si distingue per lo stile denso, il linguaggio viscerale e la proposta di immagini originali, suggestive e di forte carica simbolica. L’esigenza lirica si svela lentamente, strofa dopo strofa: nell’immaginario di chi legge, i simboli offerti dal brano poetico si inseguono e si allineano, evocando una riflessione intensa sulla morte, sulla memoria e sull’abbandono. Dal punto di vista lessicale, l’autrice seleziona accuratamente termini vividi e netti, che danno forza e tangibilità alle esperienze narrate. Questa combinazione di simbolismo e concretezza contribuisce a creare un’atmosfera quasi onirica, e la scelta metrica, caratterizzata da versi liberi, favorisce una fluidità espressiva che amplifica la percezione del sogno. Interessanti anche gli effetti ritmici dati da assonanze e rime interne, che non forzano la lingua, assecondando felicemente lo stile adottato. (VALENTINA COTTINI)
Una poesia che nel dirsi si fa racconto, in cui l'animale comunica con l'anatomia malata di frammenti corporei dell'umano e del disumano. Animali che parlano con i corpi (che mangiano e sono mangiati) e con il corpo della parola, che depongono "uova dentro agli occhi", che fanno della guerra una beffa in cui "una morte è identica per tutti". Nell'incedere del testo e della narrazione, attraverso la ricorrenza di una figura paterna, la strage dopo l'assedio ci riporta a un reale remoto presentificato, intrecciato a frammenti di presente privati e collettivi. I versi si posano sulla pagina come incisioni, immagini disegnate a sangue, potenti ma composte, secche ma mai essiccate. (MARIASOLE ARIOT)
Voce sicura e originale, in cui il verso lungo scandisce una poesia dall'andamento prosastico e narrativo, che dopo un inizio apparentemente realistico si accende di risonanze surreali e oniriche, mantenendo però sempre una corposa concretezza di linguaggio. (SERGIO PASQUANDREA)
Il ricordo infantile di un padre morto in mare, sognato in compagnia di un pesce lampada e poi durante la conquista di Otranto da parte dei turchi. Una poesia libera e quasi ariostesca, colma di immagini e fortemente narrativa, che dà luogo a un’epica dell’infanzia vissuta nel Salento. Anni non troppo lontani che vengono rivissuti attraverso ricordi cinematografici (un film della Wertmuller) e di feste natalizie (l’anguilla fuggita dal secchio). Ma è l’immaginario infantile a essere il centro di questa poesia, con la figura mitica del padre diventato creatura del mare al pari del pesce lampada e poi trasportato nella Otranto del sacco, martire dei “Turchi venuti a prendere tutto come soldati israeliani qualunque”. Fantasie di bambini che si fondono con realtà odierne appena accennate e con ciò che siamo stati solo pochi anni fa, in una sintesi delle vite e dei destini di tutti che tenta l’impresa apparentemente impossibile di raccontarci in forma poetica. (VINCENZO REZZUTI)
Danila Giancipoli
Padre nostro
Tema tradizionale trattato con originalità. Buona padronanza delle figure di stile. (GIUSEPPE FEOLA)
Per la sua poesia Giancipoli sceglie un linguaggio intimo e riflessivo, attraverso il quale esplora temi legati alla ricerca di sé, all’amore e alla memoria da una prospettiva interessante: il soggetto lirico infatti si sposta costantemente, ondeggiando tra l’io, il tu e il noi. Il tono adottato, confidenziale e interrogativo, appare quello di un dialogo con un interlocutore al contempo interno ed esterno, che talvolta interagisce e talvolta sembra condurre il linguaggio altrove, rendendo l’approccio al brano quasi estraniante. Dal punto di vista lessicale, l’autrice dà vita a una lingua immediata e musicale. Il verso libero conferisce al testo un senso di movimento e di ricerca, rispondendo alla medesima esigenza della trama. (VALENTINA COTTINI)
Una poesia che racconta l’assenza di riferimenti concreti, l’esperienza umana che è diventata una raccolta di viaggi e l’impossibilità di scegliere dove andare e chi essere. In tutto questo il rapporto con l’altro si riduce a un amore dove ci si racconta un pezzo di vita e quando si ritorna all’ovvio, all’anello offerto, pare di tornare a un dio cui non si crede più. Non resta che raccontarsi con trasparenza, senza armi, sapendo che è diventato impossibile fingere. Con un ritmo lento e un po’ ipnotico che ricorda certi gruppi rock l’autrice riesce nell’intento di narrare l’incertezza. (VINCENZO REZZUTI)
Stefano Solaro
Come se fossimo finiti per sbaglio
La poesia di Solaro è caratterizzata da uno stile diretto, conciso, che racconta la realtà con una lingua consapevolmente senza filtri. Il tono, nei primi versi quasi ironico, evolve rapidamente verso un’atmosfera più cupa, sollecitando in chi legge una riflessione sulla sofferenza e sulla morte. Le immagini proposte evocano una realtà quotidiana che, nella malattia che “va di moda”, così come nelle “tossi secche e robotiche”, vira verso la deumanizzazione, e il costante contrasto tra i due piani crea una tensione che arricchisce la poesia di significato. (VALENTINA COTTINI)
Ritrovarsi per sbaglio alla stessa festa è un riscoprire per caso legami vulnerabili attorno al fuoco anonimo di temi caldi, trovare conforto negli aneddoti di una realtà truce dove raffreddori persistenti, tossi secche e robotiche, polveri sottili sfuggite dalla tv e bambini sotto le macerie evocano le storture profonde del NOI che l'IO deve per forza ingoiare. Il dramma umano è colpa spiattellata a reti unificate, addolcita dal pacco di un postino. (LUIGI IANZANO)
Versi asciutti nel delineare una condizione umana fatta di solitudine e alineazione, in cui il raffreddore e la strage di bambini si mescolano senza soluzione di continuità. (SERGIO PASQUANDREA)
Le notizie del mondo sono diventate aneddoti da raccontare dopo essere finiti in quella festa sbagliata che è la nostra vita. Non parliamo che di cose dette da altri, seguendo mode (“in città va di moda la malattia”) e ripetendo le frasi dei telegiornali. Tutto avviene fuori di noi, mentre la nostra vita trascorre in questa festa dove siamo finiti per caso. È una descrizione molto efficace della vita nel mondo civile ancora in pace, cui scopriamo di partecipare solo casualmente. (VINCENZO REZZUTI)